Oggi al Meeting di Rimini un incontro ricorderà don Francesco Ventorino a dieci anni dalla scomparsa. Parla l'amico Felice Achilli
Conosco don Ciccio Ventorino da 16 anni, in metà dei quali la sua morte non ha abolito la sua presenza, ancora misteriosamente vicina, come documenta tutta la vita che è nata e continua a fiorire tra chi lo ha conosciuto. Come ha detto a me e mia moglie la settimana prima di morire: “Non preoccupatevi, sarò più presente di prima“. Quello che trattengo di don Ciccio è quindi lui stesso, ancora misteriosamente presente, in un abbraccio alla mia vita che non si è mai interrotto, fondato su una certezza: l’incontro con Cristo come unica ragione esauriente della vita, incontrabile e conoscibile dentro la Chiesa attraverso la luce che splende sul volto dei santi.
Ho conosciuto don Ciccio il 25 agosto 2009, due mesi dopo la morte del nostro ultimo figlio Andrea, di undici anni, in un incidente stradale, proprio al Meeting di Rimini. Ero venuto solo un giorno, per ringraziare don Carrón per la sua presenza al funerale, ed ero seduto in platea. L’incontro filò via in un baleno, ma la mia attenzione era quello che era. La mia testa continuava a riandare a quello che era accaduto ad Andrea, a mia moglie e agli altri figli, e questo insinuava un distacco incolmabile tra me e quello cui stavo partecipando. Tutto quello che avevo vissuto e che sapevo non mi bastava.
Improvvisamente, alla fine dell’incontro, la persona seduta nella fila davanti a me si alza e, vedendomi, mi abbraccia e mi dice: “Ciao! Come stai?, è un mese che cerco di mettermi in comunicazione con te! Voglio venire a casa tua”. Era don Francesco Ventorino.
Avevo incontrato don Ciccio, qualche anno prima, ma non vi era un’amicizia “stretta” o una consuetudine di frequentazione. Don Ciccio non conosceva né mia moglie, né i miei figli, né era mai stato a casa mia. Chiamo subito mia moglie, le racconto dell’incontro, stupito. Perché questa preferenza per noi?
Da allora non ci siamo più mollati, nei sei anni successivi non c’è stata settimana in cui non ci siamo visti o sentiti: telefonate (sempre ogni domenica mattina: che mangiate di buono?), mail, viaggi da e per la Sicilia, incontri, pellegrinaggi: una vita condivisa. Il contenuto di questa amicizia è stato ben chiaro fin da subito: Dio dà, Dio compie: è vero?

Ci scrisse: “In questo fatto è messa alla prova la vostra e la nostra fede, la nostra certezza nella resurrezione di Cristo. Se Cristo è risorto, la vita di Andrea è stata immersa di schianto nella Sua resurrezione, proprio a causa della sua morte così prematura e violenta, fino ad apparire ingiusta. Mentre a questa resurrezione la vostra e la nostra vita viene preparata come in un lungo Sabato Santo. Nel Sabato Santo Cristo è ‘disceso agli inferi’, cioè è entrato ‘nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva nessun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto’. È successo l’impensabile: ‘che cioè l’Amore è penetrato negli inferi‘. E pertanto, ‘anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori’. E possiamo vivere cercando di scorgere, proprio nel buio del Sabato Santo, l’inizio della luce della Resurrezione. Questa sarà la vostra vita per sempre, perché questa è la vita del cristiano, questa è la fede, non ‘solo il buio, ma anche la luce'”.
Negli anni successivi don Ciccio ha dovuto affrontare diversi problemi di salute, tra cui un reintervento cardiochirurgico: gli erano state offerte diverse ipotesi di soluzione in diversi prestigiosi ospedali. Ma lui, dopo quei giorni passati a casa nostra, con la decisione ben nota a chi lo conosce, mi dice: “Felice, ho quasi ottant’anni, sono al mio secondo intervento cardiochirurgico, ho un tumore da diversi anni, se devo morire, voglio che sia tu ad accompagnarmi, ho deciso di venire nel tuo ospedale” (noi avevamo appena iniziato l’attività di cardiochirurgia).
Che cosa abbia rappresentato per lui questa esperienza è ben comprensibile leggendo la lettera che mi ha consegnato all’atto della sua dimissione dopo l’intervento:
“Stando in ospedale ho capito il valore e il senso di una affermazione della scuola di comunità che prima avevo letto frettolosamente: ‘Se l’amore è la legge della vita, il vertice è l’offerta della propria vita. Allora ho capito che l’offerta della vita sconfigge ogni impotenza. Non ci sono delle situazioni in cui tu possa essere costretto all’impotenza. Anzi dall’offerta sgorga una fecondità misteriosa, certamente più grande di quella che presumi che derivi dal tuo tanto darti da fare'”.
La sera del suo ultimo Natale, davanti a tutti i pazienti ricoverati, medici e infermieri presenti, prese la parola dicendo: “Questo è il Natale più bello della mia vita! Perché grazie alla vostra opera è più facile per me credere all’Avvenimento di cui questa sera facciamo memoria”.
Tanti mesi passati insieme, ognuno a combattere la sua battaglia, ognuno sostegno (spesso silenzioso) dell’altro. Per lui l’amicizia era la partecipazione a tutta la vita, così ci ha fatto conoscere i suoi amici, la sua Catania, Sant’Agata, e così per noi: i nostri amici sono diventati suoi amici. E tutta questa vita continua.
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