Quando, il 15 settembre 1993, si diffuse a Palermo, una Palermo molto diversa da quella di oggi, una città che appariva in stato di guerra, la drammatica notizia che padre Pino Puglisi era stato ucciso nel “suo” quartiere di Brancaccio, proprio il giorno del suo compleanno, tutti quelli che lo avevano conosciuto negli anni della giovinezza hanno rivisto per un attimo, nei loro ricordi, il suo bellissimo sorriso. Con il sorriso, prima ancora che con le parole, padre Pino Puglisi stabiliva un dialogo autentico, fatto di fiducia reciproca e di amicizia spontanea, con i giovani, mettendo in pratica quella teoria dell’empatia che era stata pensata da uno dei suoi autori preferiti, l’americano Carl Rogers. Quel sorriso ci faceva sentire capiti fino in fondo, ci portava a riflettere su noi stessi, ci spingeva a essere protagonisti della nostra vita, a spenderci in prima persona per dare una svolta alla storia della nostra città: “Se ognuno fa qualcosa, si può fare molto”. Quel sorriso, a Palermo, è divenuto il simbolo del coraggio.
È rimasto profondamente impresso nella memoria collettiva il momento in cui padre Puglisi andò incontro alla morte, rivolgendosi ai killer mafiosi con un sorriso e con le parole: “Me lo aspettavo”. Ogni volta che ho visto ricostruire questo momento, durante i processi di mafia, ho sentito nuovamente vicino questo piccolo grande prete, questo amico di giovinezza, quest’uomo che, facendo comprendere con i fatti, e non solo con le parole, il significato vero della libertà, della speranza, di ciò che lui chiamava “il diritto dei più poveri”, ha cambiato in profondità la vita di tante persone.
Quando, più di venti anni dopo, nel nuovo processo sulla strage di Capaci, abbiamo interrogato i due killer che lo hanno assassinato, Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, il primo ha detto, con una espressione impossibile da dimenticare sul volto, “ho ucciso un santo”; il secondo ha spiegato che la sua scelta di collaborare con la giustizia nacque durante una messa celebrata in carcere, dove “c’erano proprio dei riferimenti di don Puglisi. Bellissimi perché nella sua preghiera diceva che Dio non forza il cuore di nessuno, quando il cuore è pronto si aprirà tranquillamente”, ed ha aggiunto: “undici anni di 41 bis mi hanno dato la possibilità, l’opportunità, di essere oggi la persona che sono. Personalmente dico che quegli undici anni di 41 bis sono stati benedetti”.
Gli aspetti veramente rivoluzionari del messaggio cristiano, quelli che padre Puglisi riassumeva dicendo “è difficilissimo morire per un amico, ma morire per dei nemici è ancora più difficile. Cristo però è morto quando noi eravamo ancora suoi nemici”, hanno trovato la loro realizzazione più forte a Palermo, in quei drammatici anni 90 in cui il nostro Paese, colpito al cuore dalle stragi, è stato capace di combattere, e vincere, la sfida lanciata dai poteri criminali, senza arretrare neppure di un solo passo sulla strada dei diritti e delle libertà.
Ripartire dalle periferie
Oggi, il modo migliore per ricordare padre Pino Puglisi è attraverso l’impegno di tutti per portare avanti quel processo di liberazione collettiva, di affermazione della dignità di ogni persona, di lotta contro la povertà e l’illegalità, che lui ha avviato nel periodo storico più difficile, trasformando la sua parrocchia in una “prima linea” nella lotta al potere mafioso. Le sentenze hanno accertato che proprio in questa “intensa ed instancabile attività di risanamento morale e sociale” va individuata la causale della sua barbara uccisione: “ciò che doveva essere bloccato era il progetto che il parroco stava attuando di liberare le forze sane della società civile, favorendo un processo di avanzamento del fronte della legalità: detto fronte doveva essere spezzato, colpendo al cuore questo movimento, e l’attacco doveva essere condotto proprio nel cuore del quartiere di Brancaccio, dove indiscusso e inviolato dilagava il potere dei fratelli Graviano, indicati unanimemente come i reggenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia” (così la sentenza di primo grado).
Negli ultimi mesi, un segnale importante nella lotta alla mafia è stato dato dalla riforma dell’ergastolo ostativo, approvata definitivamente il 30 dicembre 2022, con cui il legislatore, adempiendo il mandato affidatogli dalla Corte Costituzionale, ha evitato il rischio che venisse aperta la strada alla scarcerazione di quegli esponenti di vertice di Cosa nostra che hanno deciso e attuato un attacco terroristico finalizzato a mettere lo Stato in ginocchio, senza poi mostrare neppure il minimo rispetto per le vittime, per il loro dolore, per il loro bisogno di verità. Grazie alle nuove norme, è stato creato un punto di non ritorno. Adesso, finalmente, sappiamo che i boss mafiosi che trent’anni fa hanno deciso ed eseguito le stragi non saranno più liberi di riprendere il loro dominio indiscusso sul territorio, di consumare tutte le loro vendette, di pianificare cinicamente un destino criminale per tanti giovani che hanno la stessa età dei nostri figli, di spezzare con la violenza il sogno di riscatto di una intera città, di un intero Paese.
Proprio all’inizio di quest’anno è stato tratto in arresto a Palermo un esponente mafioso, Matteo Messina Denaro, che era latitante dal 1993 ed è stato riconosciuto responsabile delle stragi commesse in quell’anno a Firenze, Roma e Milano. Tutti siamo stati colpiti dall’applauso spontaneo tributato dalla popolazione ai carabinieri mentre lo arrestavano. Nei giorni immediatamente successivi, nel suo paese di origine, i ragazzi sono andati in corteo con cartelli dove c’era scritto “io vedo, io sento, io parlo”. Esattamente il contrario della legge del silenzio che in passato regnava nella mia terra. L’attuale momento storico è un’occasione irripetibile per diffondere nell’intera società italiana la consapevolezza che, per usare le parole di Paolo Borsellino, la lotta alla mafia non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolga tutti, e specialmente le giovani generazioni, “le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
Per questo, è fondamentale dare continuità al progetto avviato all’inizio degli anni 90 da padre Puglisi, sviluppandolo nella Palermo di oggi, come pure in molte altre città, dove è essenziale ripartire dalle periferie. Ripartire dai bisogni, dalle preoccupazioni e dalle attese di tutte quelle persone che non hanno voce nel dibattito pubblico, che sono circondate dall’indifferenza, e che vorrebbero sentire qualcuno che, come padre Puglisi a Brancaccio, in quella che lui chiamava “la borgata più dimenticata delle città”, dica: “dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche”. E poi faccia seguire alle parole i fatti, “tentando di strappare i bambini di Brancaccio al loro triste destino, di comunicare loro valori nuovi rispetto a quelli trasmessi dalla strada”, di “combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi”, di coinvolgere l’intera popolazione nelle iniziative finalizzate a “chiedere alle istituzioni ciò che è indispensabile per la vita civile del quartiere”, in tutte le realtà territoriali in cui è “necessario un servizio ai poveri, ai giovani, agli emarginati, ai bambini a rischio, a tutte quelle forme di povertà”.
È un progetto la cui fortissima attualità si comprende con chiarezza non appena si entra in contatto con quelle zone di Palermo, situate a pochi passi dalle aree più affascinanti e frequentate del centro storico, in cui una delle principali attività economiche è ormai, per molte persone, lo spaccio di sostanze stupefacenti come il crack, che stanno distruggendo la vita, la mente, il futuro di giovani che potrebbero essere una grande risorsa per la comunità e che sono, invece, lasciati soli con le loro fragilità. Per tutte le istituzioni, è giunto il momento di diventare più presenti in quei contesti “scomodi” dove le mafie proliferano e lo Stato sembra lontano. Si tratta di un impegno non solo di giustizia, ma, prima ancora, di solidarietà e di coraggio civile.
La lettera ai detenuti dell’Ucciardone
Il progetto “di promozione e di liberazione” in cui ha creduto con forza padre Puglisi ha un grandissimo bisogno di essere portato avanti anche rispetto a una realtà che diventa oggetto di attenzione collettiva solo quando si verifica un evento drammatico, come è successo purtroppo proprio nei giorni scorsi a Torino, come avviene sempre più spesso in tanti altri luoghi: la realtà del carcere.
Tra le lettere più belle di padre Puglisi ce n’è una inviata alla vigilia del Natale del 1992 alle persone del quartiere Brancaccio che si trovavano nel carcere dell’Ucciardone. La lettera inizia con le parole: “Cari amici del quartiere Brancaccio detenuti in questa casa circondariale, in occasione del Natale noi del Centro di accoglienza Padre Nostro desideriamo farvi sapere che anche noi, oltre naturalmente ai vostri cari, rivolgiamo il nostro pensiero a voi e alla vostra condizione di spirito”, e prosegue con l’intenzione di andarli a trovare per aprire un contatto destinato a continuare nel Centro di accoglienza dopo la loro liberazione. È un’idea che può attuarsi oggi attraverso una precisa iniziativa volta a mettere in pratica una moderna politica della sicurezza, fondata sulla piena attuazione del principio costituzionale di rieducazione in una logica di inclusione sociale, di promozione umana: si tratta di dare effettività alle previsioni introdotte dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che prevede uno strumento, il Consiglio di aiuto sociale, idoneo a rappresentare un luogo istituzionale capace di realizzare quella azione collettiva secondo una logica “di rete” che costituisce, allo stato, la necessità più importante e strategica.
La rivitalizzazione di questo strumento su tutto il territorio nazionale può rafforzare in modo decisivo la sinergia tra le diverse realtà istituzionali, sociali e religiose (compreso il mondo vitale del volontariato) impegnate nel percorso di recupero degli autori di reato, su cui puntava don Puglisi quando spiegava che “bisogna far capire che all’uscita dalla prigione non si può ricominciare daccapo”.
Speranza e amicizia
Tutto il pensiero di padre Puglisi è costruito su due concetti: quello di speranza e quello di amicizia. Nel 1991, uno dei suoi discorsi più significativi inizia con le parole: “Siamo testimoni della speranza”. E poi spiega: “la speranza è la risultante dell’amicizia nel senso più rigoroso del termine”. Non è solo una visione teorica. È un modo di pensare e di vivere, da cui scaturisce quella straordinaria serenità che lo accompagna nelle sfide più difficili.
Nel periodo in cui opera a Brancaccio, don Puglisi parla così a un gruppo di giovani: “Il testimone certe volte deve anche rischiare, io sto rischiando un po’ grosso, forse, non lo so. Però, siccome credo nell’amicizia, la speranza è la risultante dell’amicizia”. La sua più bella riflessione sull’amicizia è contenuta nella relazione da lui fatta in un campo-scuola dedicato ai giovani e intitolato “Essere con… comunicazione, amicizia, famiglia, dialogo”: “L’amicizia, come vittoria non episodica sulla solitudine è forse il bisogno più acuto dell’uomo delle società tecnologicamente avanzate che, malgrado i mass media e le grandi concentrazioni urbane, sono società della non comunicazione e della solitudine. Oggi alcuni pensano che essa sia una cosa da ragazzi, una esperienza poetica di gioventù, un’idea consolatoria per chi non ha cose serie da fare, o un trucco sofisticato per fare carriera e buoni affari. Al contrario l’amicizia è l’espressione di quella briciola di sacro, di etico, di spirituale presente in ciascuno di noi”.
Inoltre, “l’amicizia è il terreno su cui il giovane può edificare la propria personalità con maggiore garanzia di riuscita. Ma la vera amicizia è rara e, come ogni valore, deve essere cercata, scoperta, protetta, alimentata e infine dilatata alle dimensioni del mondo”. E “l’amicizia ai nostri giorni rimane forse il lido più desiderato dai ragazzi, ma anche dagli adulti e dagli anziani perché non c’è età in cui non si senta il bisogno di rifondare una società davvero umana”. Sono parole che presentano una intensa continuità ideale con il titolo del Meeting di Rimini di quest’anno, “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile”. Anche per questo, ricordare Ppadre Puglisi ha un significato speciale qui, in un luogo che vede la partecipazione di tantissimi giovani che vogliono creare un ponte tra diverse culture nel segno della fraternità umana, e che si riconoscono nel volto di padre Pino.
Le donne vittime di violenza
Il messaggio, il sorriso, il coraggio di padre Pino Puglisi continuano a vivere nell’animo di tutti coloro che si propongono di continuare la sua opera, anche nel campo della giustizia. C’è una lezione fondamentale che emerge dalle sue idee: “Giustizia significa porre al primo posto il valore della persona umana, di ogni persona, di ogni uomo, non pensando solo a sé stessi” (anche perché “tanto più un uomo è isolato, tanto meno è indipendente”).
È forse la più bella, e profonda, definizione che sia mai stata data della giustizia. Dopo l’uccisione per mano mafiosa di Cesare Terranova, Leonardo Sciascia ha scritto: “credo che il sentimento in lui più forte fosse quello della compassione, nel senso più vero: di soffrire con gli altri, di soffrire con le vittime, di patire con quei che patiscono”.
È da questa visione, che accomunava due grandi italiani, due grandi uomini di cultura, che hanno amato la loro terra con il desiderio di cambiarla, che deve partire ogni impegno di rinnovamento della nostra giustizia, per renderla capace di dare voce a chi non ha voce, di garantire pienamente la tutela dei diritti umani visti come “leggi del più debole”, di riconquistare la fiducia di tutte le persone offese da fenomeni criminali, come la violenza contro le donne, che richiedono un autentico salto di qualità culturale. Una giustizia capace di valorizzare la dimensione collettiva del diritto alla speranza.
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