Dopo un’importante iniezione di liquidità, ora le banche centrali potrebbero cominciare a chiudere i rubinetti, creando seri pericoli. Ce ne parla MAURO BOTTARELLI
Si allunga la schiera dei catastrofisti che vengono in mio soccorso prevedendo rischi molto seri di un market crash a causa del doping iniettato nel sistema dalle banche centrali e del suo possibile ritiro il mese prossimo da parte della Fed. L’ultimo in ordine di tempo a porre la questione è stato il Center for economic policy research (Cepr) di Ginevra, presentando il sedicesimo report sull’economia mondiale. Chiara la tesi di fondo: non è in atto alcun deleveraging del mercato, visto che le iniezioni di capitale della Fed non solo hanno artificialmente gonfiato gli indici di Borsa ma anche spinto le aziende a indebitarsi sempre di più per dar vita a buybacks azionari per tenere alto il valore dei propri titoli e abbassare il flottante e i cittadini a caricarsi di nuovo debito, sia sotto forma di prestiti scolastici che di credito al consumo, con il tasso di default sui mutui che è tornato a salire e non a scendere. Quindi, forse, non sono pazzo del tutto.
Per il Cepr, «la combinazione velenosa di debito record e crescita in rallentamento ci suggerisce che l’economia globale potrebbe essere sulla via di una nuova crisi». E calcolate che il Cepr non solo lavora su commissione del Centre for monetary and banking studies, ma annovera tra gli economisti che hanno redatto report tre ex banchieri centrali, gente che conosce le dinamiche in atto: e, infatti, predicono che «i tassi di interesse dovranno restare bassi per molto, molto tempo per fare in modo che cittadini, aziende e governi possano servire il loro debito ed evitare un altro crash».
In particolare, viene posto l’accento sulla continua e rapida crescita del debito del settore pubblico nelle economie sviluppate e di quello privato nei mercati emergenti, soprattutto in Cina: «La combinazione diviene ancora più velenosa perché al debito globale alto e in crescita va unito un rallentamento del Pil nominale, innescato da crescita reale bassa e inflazione in caduta libera. Il livello totale del debito mondiale, privato e pubblico, è salito dal 160% dell’income nazionale del 2001 a quasi il 200% dopo la fase più acuta della crisi e al 215% nel 2013». Insomma, stiamo andando incontro a un epilogo tipico di tutti i cosiddetti miracoli economici: l’Italia degli anni Sessanta, il Giappone, le tigri asiatiche, l’Irlanda, la Spagna e con ogni probabilità la Cina. Tutte fasi terminate, in maniera anche brutale, dopo un eccesso di accumulazione di debito. D’altronde, lo stesso Fondo monetario internazionale ha dovuto ammettere che «il debito globale dei mercati è salito a circa 100 triliardi di dollari nella metà del 2013 dai 70 triliardi di metà 2007».
Tornando al Cepr, gli autori fanno notare che «nonostante il valore degli assets a livello globale sia salito di pari passo con il debito, rendendo i bilanci meno a rischio, il timore è che i prezzi degli assets potrebbero essere soggetti a un circolo vizioso nella prossima fase della crisi di leverage globale, dove un’inversione dei prezzi porterà obbligatoriamente a uno strizzamento del credito e innescando una pressione al ribasso proprio sul prezzo degli assets». Una tesi sposata anche in un recente report di Deutsche Bank, nel quale si ammetteva che «abbiamo creato un mostro del debito globale che è così grande e così cruciale per il funzionamento del sistema finanziario e dell’economia che i default sono diventati un evento sempre più minimizzato grazie a risposte politiche ultra-aggressive. È chiaramente troppo tardi per cambiare il corso degli eventi ora senza che incorrano serie conseguenze».
E ancora: «Questo ciclo forse è cominciato con le politiche di allentamento seguite alla crisi dei mercati emergenti nel 1997-98, un atto che ha portato alla crescita esponenziale della leva in tutto il mondo. Da allora abbiamo visto grosse aziende salvate all’inizio degli anni 2000, finanziarie salvate alla fine della decade e più recentemente anche salvataggi sovrani. Sono passati molti, molti anni da quando il libero mercato decideva il destino dei mercati del debito e da allora i salvataggi sono diventati sempre di maggiori proporzioni». Penserete che questo mio interesse per l’operato delle banche centrali sui mercati sia una vera e propria ossessione, forse lo è, ma come vi sto dimostrando da ormai alcuni mesi, piano piano sempre più soggetti stanno aprendo tardivamente gli occhi e puntando il dito verso la gigantesca bolla del credito che sta gonfiando i mercati e le loro valutazioni.
In un contesto di debito globale sempre crescente, con le economie reali ferme e alcune addirittura in recessione, la possibilità che qualcosa vada fuori giri cresce di giorno in giorno, soprattutto perché, come vi dicevo la scorsa settimana, il tempo ora comincia davvero a stringere per la Fed, la quale ieri si è trovata a dover fare i conti con il dato sui nuovi assunti nel mese di settembre, cartina di tornasole dello stato di salute dell’economia reale Usa e quindi potenziale dinamo per la chiusura del “taper” a fine mese e per un aumento anticipato dei tassi di interesse. E il numero degli occupati è salito, visto che l’economia statunitense ha creato a settembre 248mila nuovi posti di lavoro nei settori non agricoli, più delle attese degli economisti ferme a 215mila unità, mentre il dato di agosto è stato rivisto al rialzo da +142mila a +180mila unità: il tasso di disoccupazione è così sceso al 5,9%, rispetto al dato non rivisto di agosto e al consenso pari a +6,1%, livello che non vedeva dal 2008.
Insomma, un successo che potrebbe sancire davvero la svolta nella politica della Federal Reserve, la quale però ha sempre dalla sua parte un’arma di riserva: se infatti il tasso di disoccupazione è calato, lo stesso andamento lo ha seguito anche il tasso di partecipazione alla forza lavoro, scesa a settembre al 62,7%, il peggior dato dal febbraio 1978 e con un risultato finale che vede altre 315mila persone tagliate fuori al computo della forza lavoro, un minimo record che porta il totale a 92,6 milioni. Insomma, non c’è un dato unico che forzi la Fed a decidere se il “taper” si disattiverà davvero a ottobre, con acquisti zero già da novembre o se i rischi di un crash sono troppo alti drenando tutta quella liquidità dal sistema, supportata sì dal diluvio di soldi della Bank of Japan ma non dalla Bce, banca centrale di un’area a rischio deflazione molto spinto e che l’altro ieri ha di fatto deluso i mercati con la sua ennesima prova di inazione.
Già, perché le banche centrali – Fed in testa – sono state bravissime a mascherare l’accelerazione del collasso economico a livello globale, ma come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, l’effetto benigno dell’inflazione che doveva sostenere la ripresa è, nelle previsioni, ai livelli del fallimento di Lehman Brothers, non esattamente una conferma di stabilità economica e crescita. Ma non solo, citando non me stesso ma JP Morgan in un recente report, «l’attuale situazione di eccesso di liquidità, cominciata nel maggio del 2012, è stata la più estrema di sempre in termini della sua magnitudo ed eventuali azioni della Bce hanno il potenziale di renderla ancora più estrema», come ci mostra il secondo grafico, che, mettendo la situazione attuale in prospettiva, dimostra come il mondo abbia raggiunto un plateau di dipendenza permanente da iniezioni di liquidità, l’unico vero driver di economia e mercati.
Prendiamo ora l’ultimo grafico: con il timore diffuso che la Fed possa davvero ritirare il su programma di stimolo, innescando una contrazione al trend della liquidità, questa previsione elaborata da Barclays ci indica che almeno fino al 2016 «non cambierà assolutamente nulla nell’inclinazione dell’eccesso di liquidità fungibile e globalmente interconnesso, visto che la crescita dei bilanci delle banche centrali resterà ampiamente invariata per i prossimi 12-15 mesi».
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