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Home » Economia e Finanza » SPILLO/ Così gli italiani aiutano le svendite di Stato

  • Economia e Finanza

SPILLO/ Così gli italiani aiutano le svendite di Stato

Gianluigi Longhi
Pubblicato 10 Agosto 2014
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Infophoto

L’Italia è in recessione e le cose potrebbero peggiorare ancora. Tra i cittadini, spiega GIANLUIGI LONGHI, sembra però regnare un individualismo estremamente dannoso

I dati sono dati, il Pil nel secondo trimestre è calato: -0,2%. Il terzo trimestre sarà peggio: mal tempo, esondazioni e nubifragi hanno messo in ginocchio turismo, agricoltura, nel periodo dell’anno di maggior fatturato a loro vocato, l’industria segue a ruota. Sono pessimista? Non credo. Mercoledì 23 luglio sono entrato in autostrada a Cattolica, direzione sud, ore 10. Alla velocità di crociera dei 130 km orari ho superato fino ad Ancona Nord soltanto 57 camion, anche quelli sotto i 35 quintali. Le merci non viaggiano verso sud, nessuno acquista. Il ritorno è stato un remake dell’andata, questa volta ho iniziato a contare da Cattolica direzione nord fino a Faenza, autostrada a tre corsie, un deserto. Ho superato in un’ora 103 camion.


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Ancora, nuove nubi all’orizzonte dal tam tam mediatico: conflitti in Medio Oriente e coste mediterranee, Ucraina; arriva adesso anche l’ebola per allarmare il residuo ottimismo. Sic stantibus rebus non può che andare peggio a livello mondiale e con effetto amplificato per il nostro Paese. Tutti al governo negano la manovra di autunno, ma le casse dello Stato saranno vuote ed emergerà il problema. Che fare dunque?


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La coscienza rende tutti codardi, recitava Amleto nel suo famoso monologo, nessuno avanza soluzioni strategiche se non manovre di tamponamento, svendendo per l’ennesima volta l’argenteria di famiglia, ma oramai nel cassetto c’è solo con il servizio della frutta. E vendere l’argenteria non è la soluzione, non migliora nel lungo periodo il tessuto industriale, né quello sociale e, soprattutto, non risolve il problema del debito pubblico.

I fautori del liberismo applaudono, il mercato globale obbliga gli attori ad aprirsi al mondo, ma la realtà è amara e la nostra industria abbandonata dalla politica è sempre più in affanno. Le (s)vendite di Stato – e mi riferisco ad Alitalia – sono condizionate a piani draconiani di riduzione del personale, sempre a carico della collettività, del contribuente. Le zone industriali dei distretti produttivi sono oramai cimiteri di opifici industriali, regolarmente offerti alle aste fallimentari ed esecutive non trovano acquirenti, con una continua riduzione del loro valore e, conseguentemente, di ulteriori accantonamenti per perdite sui crediti delle banche creditrici. In tutto questo, le classi corporative, dipendenti pubblici e parastato in prima fila – notizie di questi giorni del malumore dei dipendenti della Camera, barbiere compreso, o gli eletti della Regione Siciliana – continuano a non vedere, difendono il loro particolare orticello, come il Candido di Voltaire, ma non per vivere umilmente, anzi.


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La peculiarità italiana, l’individualismo con i suoi pregi e difetti, viene da lontano. Nel 1559 vi fu la Pace di Cateau-Cambrésis, definita anche la pace delle cento città d’Italia. Tante erano infatti a quei tempi le Signorie e i Feudi ovvero città indipendenti nel territorio italiano. La particolarità della conformazione geografica della nostra penisola – da nord verso sud -, l’aspetto morfologico caratterizzato da poca pianura, molte montagne e valli, ognuna lambita da fiumi, delimitò e tuttora delimita la mobilità della popolazione residente. Il processo di integrazione di Stato unitario è stato quindi lento e in ritardo rispetto ad altri Paesi europei, ove invece vaste pianure presenti in Francia e in Germania, o isolamenti obbligati come in Inghilterra, permisero una maggiore amalgama di mix genetico della popolazione creando caratteristiche più marcate nel tempo e unitarie di popolo, di nazione.

Nel 1815, alla Pace di Vienna, dopo il periodo napoleonico, alle rimostranze dei veneti che volevano ricostituire la Repubblica di Venezia l’allora Cancelliere austriaco Metternich sentenziò lapidario che l’Italia era solo una espressione geografica e annesse il Veneto ai domini asburgici. Oggi se si pensa alla tifoserie calcistiche, e all’elezione del nuovo presidente della Figc, non si può che constatare questa peculiarità. Molte volte si esulta quando una squadra avversaria italiana viene sconfitta nelle coppe europee da team stranieri.

Lo spirito nazionale si cementa nel tempo e nella consapevolezza che i suoi cittadini di fronte alla scelta di un interesse proprio particolare, opposto a quello nazionale, optino per quest’ultimo. Purtroppo ogni individuo necessita di centri di stabilità, ognuno funzionante secondo il proprio stile di vita, il proprio costume sociale, le proprie leggi, sia esse civili o sacre. Questi centri di stabilità sono estremamente importanti per il nostro modo di vivere. E ognuno ha il timore di perder quei centri per ragioni egoistiche. Questo egoismo, in contrapposizione alle norme etiche alla base del principio del bene comune, in questi ultimi decenni, ha lentamente e progressivamente preso il sopravvento.

Ogni società è funzionale quando le proprie istituzioni funzionano senza squilibri, in quanto basate su un patto sociale stabile fra governanti e governati. Il modello economico di ogni società è quindi espressione del patto sociale, e il modello economico dell’attuale società è fondato su libertà, democrazia e libero mercato. Un mercato che ha una matrice antropologica, è nato con l’uomo in quanto è sempre esistito lo scambio. Nel mercato vi è colui che chiede e colui che offre. Ma colui che chiede, chiede beni che soddisfano i propri bisogni.

Se la libertà e l’affrancamento degli individui alla rigidità delle caste hanno esaltato la mobilità sociale e quindi l’individualità, d’altra parte via via hanno offuscato l’etica e quindi il senso del sacrificio, della sofferenza, della morte quale condizione umana. L’egoismo individuale nell’attuale

Società italiana ha condizionato i comportamenti facendo diventare diritto il desiderio di benessere.

Le cronache di questi giorni hanno evidenziato che il modello fino a oggi concepito non è “ad infinitum”. È la conferma che bisogna cambiare. Ci resta la speranza e un augurio: che imprese di grande altezza e momento per questa ragione ritornino nel loro corso e riacquistino il nome di azione. 


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