Il dollaro forte continuerà a restare tale e intaccare sempre di più i risultati aziendali, l’export e quindi la crescita statunitense? Forse no e questo significa che la Fed potrebbe davvero invertire le intenzioni e dar vita a un altro ciclo dell’azzardo appena descritto da Plosser, ovvero riattivare ancora per un po’ la stamperia, magari in risposta al crollo del prezzo del petrolio e al suo fallout su economia e soprattutto finanza. Ce lo dimostra il primo grafico a fondo pagina, una vera “croce della morte” della società americana, visto che compara l’andamento di azioni e obbligazioni a Wall Street con il tasso di partecipazione alla forza lavoro negli Usa.
Diciamo però che quella del dollaro forte è una medaglia con due facce. Vi ricorderete l’epico dato del Pil americano per il terzo trimestre del 2014, quel +5% dovuto essenzialmente alle spese mediche legate a Obamacare: bene, ora tocca fare i conti con la realtà e abbassare ulteriormente il 2,6% del quarto trimestre di un altro -0,5% a causa del dato pubblicato giovedì che vede il deficit commerciale statunitense salito del 17,1%, da 39 miliardi a 46,6 miliardi in dicembre. Si tratta della lettura del deficit più ampia dal 2012, dovuta all’export calato dello 0,8% a 194,9 miliardi da 196,4 miliardi, mentre le importazioni sono salite notevolmente dal mese precedente, passando da 236,2 miliardi a 241,4 miliardi. E a cos’è dovuto tutto questo? All’apprezzamento del dollaro, ovvero il lato negativo della medaglia. E quando il boom dello shale oil sarà finito e gli Usa dovranno ricominciare a importare petrolio dall’estero, il deficit salirà ancora, permettendo però alla Fed di fare ciò di cui ha bisogno: dopo tutto, infatti, per monetizzare debito Usa, gli Stati Uniti hanno bisogno di emettere debito per finanziare quel deficit, il quale quindi da qui in avanti non potrà che crescere al fine di ristoccare lo stock disponibile di Treasuries.
Inoltre, questi gli altri tre grafici a fondo pagina ci dicono chiaramente due cose. Primo, i risultati delle entrate delle aziende sono correlati al rafforzamento del dollaro, il quale ha portato a un indebolimento degli stessi e forward guidance (le indicazioni di un’azienda indicazioni circa le proprie intenzioni future) al ribasso che incorpora il vento valutario contrario. Anedotticamente, i commenti dei management implicano che un rafforzamento del dollaro abbasserà la crescita delle entrate in un range fra i 300 e i 500 punti base e le vendite all’estero hanno pesato per il 33% delle entrate aggregate per l’indice S&P’s 500 nel 2013. In base al modello più utilizzato per il calcolo sugli utili, un rafforzamento del dollaro del 10% abbassa la ratio di utile per azione allo S&P’s 500 di circa 3 dollari. Secondo, proprio le stime su questa ratio vede addirittura l’87% delle aziende (39 su 45) muoversi al di sotto delle aspettative di consenso per il prossimo trimestre, il livello più alto da 34 trimestri, contro una media storica del 71% in un trimestre tipo. E per l’intero 2015 le prospettive non migliorano, visto che la guidance vede l’80% delle aziende muoversi al di sotto del consensus.
Ma vediamo ora l’altra faccia della medaglia, ovvero il dollaro forte sta abbattendo i prezzi di molti prodotti e mettendo un tetto all’inflazione. Stando però a studi della Newedge Usa, la questione non è così semplice e ce lo spiega l’ultimo grafico a fondo pagina: certamente il dollaro, misurato con il dollar index, è salito di quasi il 19% negli ultimi sette mesi, il sesto aumento più grande in questo arco temporale a partire dal 1973. Il fatto è che il dollar index è misurato rispetto a un paniere di altre sei valute, tra cui euro e yen, mentre se si guarda ai prodotti che gli americani comprano maggiormente, si scopre che provengono da paesi le cui monete non sono presenti nel dollar index, come Cina, Messico, India, Vietnam e Israele: di più, oltre l’80% di beni di consumo importati dagli Usa, escluse le auto, arriva da nazioni non presenti nel dollar index.
Un miglior misuratore è quello che la Fed chiama “Indice di altri importanti partner commerciali”, il quale negli ultimi sette mesi è salito solo del 7%: quindi, cosa spiega il recente e netto calo nei prezzi dell’import? Questi sono crollati del 5,5% anno su anno e, anche escludendo il petrolio, non sono cresciuti per tutto lo scorso anno, stando a dati del Labor Department. Per Newedge, si tratta di trend già presenti, ad esempio per televisioni e telefoni cellulari e questo fa parte di una quasi costante storica, visto che si sono registrati cali mensili nelle serie di misurazioni dei prezzi di tv e strumentazione audio e video nel 75% dei casi dal 1994 a oggi.
Anche il calo dei prezzi dell’abbigliamento non è da attribuire al valore del dollaro, ma agli sconti applicati, visto che i prezzi di materiali importati come il cotone sono continuati a salire. Un’analisi interessante che ha implicazioni molto serie riguardo le decisioni che prenderà la Fed, visto che se la forza del dollaro non sta penetrando nelle dinamiche dei pezzi al consumo, la Banca centrale potrebbe giungere alla conclusione che l’inflazione core è destinata rimanere comunque stabile e decidere di alzare i tassi, probabilmente a giugno o settembre. Ma c’è dell’altro che si muove attorno al biglietto verde. Guardate il primo grafico a fondo pagina: dopo che il recente collasso dei rendimenti dei Treasuries ha portato a chiusure di massa sulle posizioni short sui bond del Tesoro, anche se restano ancora di notevole entità, ecco che c’è del movimento sull’altro trade più affollato al mondo, quello long sul dollaro.
Certo, l’affollamento resta sulle posizione long nette sul biglietto verde, ma negli ultimi due giorni si è registrato il più grosso calo nell’indice Usd dal settembre 2013. Insomma, il trade sul dollaro forte sta per schiantarsi, sintomo che l’apprezzamento della valuta sull’euro sta per finire? Un dubbio al riguardo me lo mette, paradossalmente, lo studio presentato il 23 gennaio da Goldman Sachs, primary dealer del Tesoro Usa in fatto di titoli di Stato, intitolato un po’ apocalitticamente “The end of the beginning” e dedicato proprio alle dinamiche del biglietto verde. E cosa ci dice tra le altre cose la banca d’affari? Due fatti. Primo, l’euro ha vissuto per parecchi anni sopra il fair value, incluso il periodo post-2012 quando il programma di acquisto Omt spinse il cross euro/dollaro su da 1,20 a quasi 1,40, uno shock deflazionario che fu un effetto collaterale non voluto del famoso “whatever it takes” di Mario Draghi. Quindi, come mostra il secondo grafico, la sotto-performance ciclica nei confronti del dollaro, l’opera di “regime break” della Bce con il Qe e la sovravalutazione anche significativa del tassi di cambio reali nella periferia dell’Ue ora stanno puntando verso un significativo undershooting del fair value, in linea con le previsioni di lungo termine di Goldman.
Secondo, il mercato è focalizzato su quanto il Qe sarà capace di attrarre capitali esteri nell’eurozona, visto che l’Omt ha causato un così ampio rimbalzo. Stando all’ultimo grafico, il portafoglio lordo di inflows esteri nell’eurozona è rimasto ampio nell’attesa del Qe e anche se questo attrarrà ulteriori capitali, visto il grado già elevato di inflows esteri già presenti, a Goldman non pensano che l’apprezzamento dell’euro attraverso questa fonte potrà essere troppo grande. In contrasto, gli outflows lordi di portafoglio dall’eurozona sono costantemente cresciuti, tanto che la media a dodici mesi ora è negativa (ovvero più outflows che inflows). Ora con il “regime break” della Bce attraverso il Qe quegli outflows potrebbero crescere di intensità nei prossimi mesi, sostenendo ulteriormente il calo del cross euro/dollaro.
Insomma, per Goldman Sachs il dollaro forte è destinato a restare. Il problema è che il principale driver del dollaro forte, al netto dell’annuncio di Qe da parte della Bce, nonostante la deflazione globale e il deterioramento dello stato dell’economia negli ultimi sei mesi, è stato l’ottimismo della Fed nei confronti della ripresa economica Usa e nel fatto che le corporations statunitensi siano abbastanza forti e solide da sostenere sia un aumento dei tassi di interesse che un dollaro apprezzato. Bene, visto che ci sono sempre più probabilità, anche alla luce dei numeri che avete letto ieri e poco fa sulla realtà Usa (al netto del dato sui nuovi posti di lavoro), che la Federal Reserve sia invece in procinto di ammettere che non è proprio il caso di alzare i tassi, cosa succederà al dollaro forte?
Si schianterà ovviamente, soprattutto visto che la scorsa settimana il Segretario Usa al Commercio ha detto chiaro e tondo che l’Amministrazione sta vigilando attentamente sul fenomeno. Detto fatto, come sottolineato prima, chi si troverà dal lato sbagliato della scommessa – ovvero long sul dollaro, il trade più in voga da inizio anno oltre a quello di shortare il Treasury – si schianterà. Ma perché questo accada, le grandi banche hanno bisogno di essere in grado di scaricare le loro esposizioni long sul biglietto verde a qualcuno, il mitologico parco buoi.
Goldman Sachs, ad esempio, è piena di quella posizioni e sarebbe felicissima di vendervele, visto il report ad hoc che ha preparato per abbindolare cercatori di guadagni facili nel mondo dei rendimenti a zero. Attenti, quella in atto, da Wall Street a Francoforte, da Mosca ad Atene, è la più grande sciarada finanziaria mai vista nella storia. La tanto temuta riunione del Fomc della Fed del 17 giugno prossimo ne sarà la conferma.
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