Questa volta non sono io a dirlo e vi assicuro che della cosa non mi compiaccio affatto. “Tempi folli” è infatti il titolo del nuovo report di Bofa-Merrill Lynch, nel quale si concentrano i numerosi eventi straordinari che in questa prima parte del 2015 si sono palesati contemporaneamente sui mercati finanziari. Vediamoli, per sommi capi. «Nelle ultime 67 sedute di quest’anno ci sono stati ben 26 tagli di tassi d’interesse in tutto il mondo, che diventano quindi 569 dal fallimento di Lehman Brothers, il dollaro ha registrato il sesto maggior rialzo dal 1971, c’è stata la prima emissione con rendimenti negativi di un titolo di Stato a dieci anni, quello della Svizzera, le stime di utili per azione delle società Usa sono diventate negative», dice la banca d’affari.
E ancora: «Il franco svizzero ha registrato un rialzo nel corso di un’unica giornata di contrattazioni del 24%, il mercato azionario russo è in rialzo del 33%, Shanghai del 24%, mentre la Bce si gioca il tutto per tutto e la Fed è in pausa. Il Messico ha lanciato un bond a 100 anni di 1,5 miliardi di euro con un tasso del 4%. Perfino la borsa dell’Iran è in rally». Ma non tutto accade per caso. Alla base di questi pazzi record ci sono mega trend, capaci di determinare l’ascesa di alcuni asset e il crollo di altri: la liquidità, la tecnologia e l’ineguaglianza. «L’eccesso di liquidità, determinata dalle politiche monetarie espansive delle banche centrali, dà una spinta ai prezzi degli asset, togliendo la volatilità. La distruzione creativa delle nuove tecnologie migliora la produttività, un elemento positivo per le azioni, e contribuisce a ridurre l’inflazione, un fatto positivo per i bond. Il prodotto di questi due fattori è l’ineguaglianza, di redditi, di utili e delle performance degli asset», afferma l’istituzione finanziaria.
La quale non manca di sottolineare che a beneficiarne è Wall Street, che dal 2008 a oggi è in continuo rally, mentre “Main Street”, ovvero l’economia reale, è ancora in affanno perché il tasso di partecipazione al mercato del lavoro negli Usa è in progressivo calo dal 2000. Una situazione di scompensi che rischia di determinare conseguenze volte a ristabilire un equilibrio: «Secondo noi, l’ineguaglianza e il probabile materializzarsi nei prossimi trimestri dell’arroganza degli investitori potrebbe alla fine provocare una reazione geopolitica o politica volta a domare Wall Street», avverte il report di Bofa-Merrill Lynch. E ancora: «Ci aspettiamo che la previsione di una politica monetaria espansiva in Brasile e in Russia potrà guidare i flussi nei mercati emergenti nel secondo trimestre ipotizzando che non ci sia un peggioramento della crisi greca e che l’economia Usa non sia forte abbastanza da indurre la Fed a giugno ad alzare i tassi».
Cautela, poi, anche per l’Europa: «Mentre le azioni potrebbero andare troppo in alto dato che gli investitori detengono posizioni lunghe a livelli record, ci aspettiamo che i beneficiari del Qe, come le mid cap italiane, presto possano mostrare segni di fatica, spingendo gli investitori a prendere profitto. Il tutto mentre la situazione greca è lontana dall’essere risolta«. In campo obbligazionario, Bofa-Merrill Lynch fa notare che i rendimenti del Bund tedesco non sono ben prezzati data la forza del mercato immobiliare del Paese, la forza dell’economia e l’aumento delle attese di inflazione: «In particolare il balzo dell’Ifo tedesco fornisce gli elementi per un aumento di 15-25 punti base nei rendimenti dei Bund a 5 anni dai livelli attuali. Crediamo che un periodo di volatilità dei Bund causata da un secondo trimestre consecutivo di forza dell’economia Ue e da nuove attese di aumento dell’inflazione colpirà molti».
Dunque, che fare? «Per chi punta a proteggersi dall’arroganza degli investitori, l’oro rappresenta un buon veicolo». Chapeau a BofA-Merrill Lynch per aver detto, finalmente, la verità su questo rally tanto infinito quanto completamente folle, manipolato e sconnesso dai fondamentali. Ora però bisogna andare oltre, perché nonostante tutto BofA resta una banca d’affari, quindi in ossequio al motto “business is business” o al più italiano ma altrettanto giustificabile “tengo famiglia”, non può proprio dirvi tutta la verità sull’attuale situazione e su quanto sta per succedere sui mercati. Io sì, invece. Cominciamo dal primo grafico a fondo pagina, il quale ci mostra attraverso le immagini lo stato dell’arte appena tratteggiato dal report: ovvero, le aspettative di crescita per l’anno in corso, dopo un breve rimbalzo del gatto morto, ora sono ai minimi di sempre, mentre gli indici azionari globali sono ai massimi storici. La “croce della morte” appare sempre più mortale. Ma non basta. Come ci mostra il secondo grafico, venerdì scorso il mercato equity a livello globale ha sorpassato per la prima volta in assoluto quota valore di 70 triliardi di euro, un rally che dal 2009 è stato del 175%, calcolando che si partiva da un nadir di quell’anno di meno di 26 triliardi di dollari.
Una situazione talmente paradossale che Stanley Druckenmiller, ovvero l’uomo che nel 1992 schiantò la Bank of England insieme a George Soros scommettendo contro la sterlina, recentemente ha così descritto: «Non c’è nulla di più deflazionario che creare una bolla sugli assets, buttarci dentro un po’ investitori e poi patirne l’esplosione». Ma non basta. Attaccando frontalmente la politica della Fed, la cui misure emergenziali a suo avviso non sono giustificate da elementi macro come quelli che colpirono il Giappone, Druckenmiller va oltre: «Mi sento come se fossimo nel 2004, quando ogni osso del mio corpo mi diceva che c’era una brutta ratio tra rischio e guadagno, ma non mi rendevo conto di come sarebbe potuta andare a finire. Sapevo solo che sarebbe andata a finire male e un anno e mezzo dopo ci ritrovammo con la grana della bolla immobiliare e dei subprime. Oggi ho le stesse sensazioni».
Per il decano degli speculatori, infatti, il precedente è quello del 2003-2004, quando la Fed tenne i tassi di interesse all’1% nonostante quelli di crescita trimestrali per i due anni in questione furono del 3,8%, fino a salire addirittura al 6,9% nel terzo trimestre del 2003. Tenendo il costo del denaro così basso per così tanto tempo, la Fed non fece altro che aumentare la platea di investitori che si lanciava verso asset tossici, da debito legato a un mutuo che non ci si poteva permettere a collatiralized debt obligations che nemmeno le agenzie di rating potevano emettere. Come sia andata a finire, purtroppo, lo sappiamo tutti molto bene.
Oggi, paradossalmente, i fronti di rischio sono ancora maggiori, primo in assoluto la scarsezza di collaterale di qualità sul mercato, dovuta proprio agli acquisti onnivori delle banche centrali, una penuria quantificabile nella necessità quasi disperata di qualcosa come 11,2 triliardi di dollari in collaterale spendibile ed eligibile. Come sapete, il collaterale è il balsamo della finanza strutturata, essendo la garanzia per triliardi e triliardi di operazioni repo, molte delle quali di fatto basate su liabilities nascoste ai bilanci ufficiali. Peccato che con la nuova regolamentazione legata a Basilea III, quei triliardi di collaterale servono e a dirlo non sono io ma Matt Zames, come del Treasury Borrwing Advisory Committee (Tbac), a detta del quale in condizioni di mercato stressato la domanda totale di collaterale di alta qualità (Hqc) potrebbe appunto raggiungere 11,2 triliardi di dollari.
E a cosa dobbiamo questa situazione, oltre che all’appetito infinito della Fed? All’aumento esponenziale dell’utilizzo di trading ad alta frequenza e al conseguente collasso della liquidità reale nel sistema, effetto collaterale potenzialmente letale della finanza da algoritmi. I quali non sono formulette ultra-intelligenti capaci di farvi fare sempre il business più redditizio ma, anzi, impulsi stupidi e pavloviani che molto spesso, all’apice del loro malfunzionamento, interferiscono con le funzioni del mercato, inondando gli spot di trading con traffico messaggistico o creando picchi enormi ma a brevissima scadenza nei prezzi, questo come risultato di altri algoritmi che rispondono all’iniziale flusso errato di ordine.
Insomma, se non lo avete capito, il mercato obbligazionario più grande e fino a poco tempo fa più liquido del mondo – quello Usa – ora è completamente in ostaggio degli algoritmi! Sembra “War games” ma è la realtà, purtroppo, una “Guerra dei mondi” finanziaria che potrebbe finire con i robot vincitori e il mercato di nuovo con le chiappe a terra come nel 2008, ma in condizioni macro e di credito ben peggiori. Per Steven Meier, responsabile valutario e del reddito fisso alla State Street di Boston, «c’è il potenziale per condizioni di mercato molto estreme se la volatilità salirà davvero. Ci sono ancora molte domande senza risposta rispetto a quanto accaduto e non ci sono spiegazioni chiare rispetto a chi fosse “alla guida” di quanto successo».
E attenzione, perché da un lato il rischio di grossi swing sul mercato, determinato magari proprio da flash-rally o flash-crash dovuti ad algoritmi impazziti, sta allontanando molti grandi investitori dal mercato del debito speculativo o high-yield perché non remunera abbastanza il rischio e dall’altro vede sempre più operatori gettarsi sul mercato dei futures, poiché offrono trading più veloci e anonimi durante i grandi scostamenti dei corsi. Per Erik Schiller, manager di Prudential con un portafoglio di reddito fisso da 533 miliardi di dollari, «c’è il potenziale affinché questi grossi movimenti di mercato avvengano, visto che i fornitori di liquidità oggi sono scarsi a livelli che non si erano mai visti prima».
Per capirci, una misurazione dell’attività di trading dei dealers di Treasuries è crollata a un livello molto vicino a quello registrato durante la crisi finanziaria. L’indice Deutsche Bank AG, che traccia la liquidità comparando il volume di trading dei dealers sulla media a tre mesi con i movimenti del rendimento del decennale Usa, già in febbraio era sceso a 25. Per fare un paragone, nel 2005 era sopra 500, mentre raggiunse 19 nel 2009, ovvero nel piano del tonfo post-Lehman. Insomma, se già oggi che gli indici sono in rally e gli spread a zero la liquidità è ridotta questi livelli, cosa succederà se i corsi cominceranno davvero a correggere in negativo, di fatto non facendo altro che tracciare e allinearsi alla realtà macro?
Ma se pensate che siamo massi male, aspettate la parte veramente preoccupante dell’articolo di oggi. C’è infatti di peggio rispetto a quanto vi ho detto o anche all’indicatore GDPNow della Fed di Atlanta che viaggia a 0,0% per il primo trimestre di quest’anno, molto peggio: l’ultimo Credit Managers Index, relativo al mese di marzo, «è deteriorato significativamente negli ultimi due mesi e l’attuale lettura è a livelli recessionistici che non si vedevano dal 2008», stando all’analisi di Alexander Giryavets di Dynamika Capital.
Ora, per capire bene certe dinamiche, facciamo un passo indietro e cominciamo dal grafico a fondo pagina, il quale ci mostra il crollo del debito al consumo (ad esempio, le famose famigerate carte revolving con i loro tassi di interesse che in alcuni casi flirtano con l’usura) tracciato dalla Fed, il peggior risultato dal dicembre del 2010: «Il fatto che i consumatori siano finiti in ibernazione non ha nulla a che fare con le condizioni meteorologiche ma soltanto con la mancanza di volontà rispetto al caricarsi di nuove spese, di fatto un barometro di come i consumatori Usa vedono il futuro economico e finanziario».
Insomma, cosa sta succedendo nel mercato del credito più grande del mondo? Nulla di preoccupante, come vi dico da mesi e mesi, gli Usa sono semplicemente in recessione un’altra volta. Il dato attuale, infatti è il peggiore da cinque anni, a 51.2, giù dal 53.2 del mese precedente, mentre negli ultimi due anni, le letture erano tutte abbondantemente sopra quota 55, quindi un livello che solitamente garantisce trend in salita per il mese successivo e che, invece, se dovesse far registrare un calo, farebbe immediatamente drizzare le orecchie ad un analista con un minimo di senso della misura e della responsabilità. E anche il dato dei “fattori favorevoli” ancora in area 55 (per la precisione 55.4) non deve far ben sperare, visto che negli ultimi due anni è sempre stato sopra quota 60.
Di converso, a far paura deve essere il fatto che all’interno dell’indice il crollo maggiore è stato quello legato ai “fattori sfavorevoli”, sceso da 50.5 a 48.5, in aree nettamente di contrazione e un livello di stress del credito che non si vedeva dai giorni della fine formale dell’ultima recessione. Cosa significa questo dato? Niente più del fatto che molte aziende non sono affatto sane come il mercato pensava e pensa e che quindi nel settore del business il livello di resistenza agli shock è molto più basso di quanto preventivato. Ma ecco forse la parte peggiore. Le sirene neo-keynesiane ci hanno infatti riempito la testa con l’assunto che la creazione di nuova moneta di fatto si sostanziava in nuovo credito e quindi l’unica cosa importante è la facilità con cui quel nuovo credito finisce nella mani di chi ne ha bisogno, di fatto stimolando l’economia reale: bene, guardate il grafico a fondo pagina, dopo sei anni di inondazioni di denaro a costo zero, non è mai stato così difficile ottenere credito negli Usa!
Stando infatti alla Cmi, l’indice “Rejections of Credit Applications”, ovvero le richieste di credito respinte, è letteralmente crollato al minimo storico, ancora più in basso di quanto arrivò a toccare nel picco della crisi Lehman! E senza nuovo credito che entra nel sistema economico, quale sia l’epilogo lo si impara al primo anno di economia: recessione. Anche perché il dato è di quelli da pelle d’oca, essendo sceso il livello di concessione del credito in un mese da un già debole 48.1 a 42.9, numeri da contrazione pura, il famigerato credit crunch.
Questo in cosa si sostanzia? Che le aziende fanno fatica a ottenere denaro, troppo impegnato a circolare tra i computer di Wall Street e non vanno più nemmeno in disputa, cercano unicamente di sopravvivere: sapete infatti qual è l’unico dato “positivo” dell’indice? Le richieste di fallimento, di fatto stabili da 55.0 a 55.1, sintomo però che se la voce non ha inviato un segnale contrazionario, ci ricorda comunque che si sono grossi, grossi problemi all’orizzonte visto che la situazione finanziaria di queste aziende rimane una seria preoccupazione. E il pattern non cambia sia che si parla di manifattura o di servizi, sia perché ci sono dubbi da parte delle banche rispetto ai loto status di credito (il rating ormai lo guardano solo i fondi pensione giapponesi), sia perché chi sta ancora emettendo credito in questi giorni lo fa con enorme cautela e sta chiudendo sempre maggiormente i rubinetti.
E cosa ci dice alla fine l’indice: «Il respingimento di richieste di credito è al livello del picco della recessione, sceso da 45.9 a 42.0. Queste sono letture molto negative e ci vorrà molto tempo per uscire da questa situazione». E a confermare il quadro poco rassicurante finora tratteggiato, ci ha pensato ieri General Electrics, uno dei principali emittenti obbligazionari Usa, la quale ha reso noto che la sua unità finanziaria non emetterà debito a lunga scadenza per almeno cinque anni. Vi faccio notare che i bond di Ge pesano per il 2% di tutto il debito investment grade esistente sul mercato e quindi l’essenza di emissioni porterà ancora più inflazione nella bolla del credito corporate e ridurrà l’offerta, a fronte di domanda insaziabile di obbligazioni che non siano carta da parati o igienica. E parliamo di un’azienda che nel 2009 ha venduto 52,3 miliardi di dollari in bonds, il 5,1% delle emissioni ad alto rating statunitense, salvo scendere ogni anno fino ad oggi ma comunque in grado di emettere debito pari all’1,2% di tutte le nuove emissioni annuali.
Ovviamente, togliere quella carta dal mercato, andrà a impattare su quanto dicevo prima, ovvero sulla liquidità e sull’offerta di collaterale di alta qualità nel mercato. Se invece siete investitori azionari, tranquilli, il titolo pare in ottime prospettive: in quasi contemporanea Ge ha infatti annunciato un programma di buyback da 50 miliardi di dollari, tanto per farci capire dove stanno i veri soldi da fare nell’America a guida Fed. Godetevi pure la ripresa, io attendo la nuova crisi. Vediamo chi aspetterà di più.
P.S.: Volete farvi una risata, dopo tante prospettive cupe? Ieri il Fondo Monetario Internazionale ha presentato il World Economic Outlook, il rapporto sull’economia globale pubblicato nell’ambito delle riunioni primaverili dell’istituto di Washington. Bene, al suo interno viene citato lo «stress finanziario nell’area euro che può scattare dall’incertezza delle politiche associata alla Grecia o la turbolenza politica nell’area euro che può fare riemergere e reintensificare il nesso tra banche, bond sovrani ed economia reale». Di più, «un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe costosa e dolorosa per il Paese, mentre il resto dell’Europa è in una posizione migliore per gestire la possibilità di una Grexit», ha poi chiarito il capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, nel corso della conferenza stampa di presentazione, a detta del quale se dovesse accedere il Grexit «bisognerebbe usare l’opportunità per fare progressi verso l’unione politica e fiscale», auspicando di arrivare a un accordo con Atene, «anche se per ora nulla è chiaro». Condivisibile, direte voi. Bene, guardate questo grafico, estratto proprio dal World Economic Outlook presentato ieri. Quale sarà a detta dello stesso Fmi il Paese con il maggior tasso di crescita nell’eurozona nel 2016? La Grecia!!! Ecco la gente che dovrebbe fornirci le ricette per uscire dalla crisi, un a banda di cialtroni che dal 2009 ad oggi non ha fatto altro che dar vita a revisioni al ribasso delle proprie stime. Tra l’altro, sempre nel World Economic Outlook l’Fmi ha rivisto al rialzo le stime di crescita per l’Italia, con un Pil che salirà dello 0,5% quest’anno per poi accelerare all’1,1% il prossimo. Numeri leggermente più bassi rispetto a quelli contenuti nel Def da seduta lisergica del governo Renzi, che fissa l’incremento del prodotto interno lordo allo 0,7% nel 2015 e all’1,4% nel 2016 (poi Padoan ha spento la Playstation ed è andato a dormire). Inoltre, sempre i mattacchioni dell’Fmi stimano che la disoccupazione nel nostro Paese scenderà al 12,6% nel 2015 e al 12,3% nel 2016, contro una media di Eurolandia pari rispettivamente all’11,1% e al 10,6%. «Ma uno dei problemi che l’Italia sta ancora vivendo è il suo settore bancario e la capacità delle banche di fornire credito», ha osservato sempre l’ineffabile Olivier Blanchard. Strano, con sofferenze lorde che alla fine di febbraio avevano toccato i 187,3 miliardi, stando ai dati dell’Abi e che nel triennio 2014-2016 arriveranno ad assorbire i due terzi del risultato di gestione complessivo, non lo avrei mai detto.