Preparatevi alla farsa finale. Al netto delle dinamiche macro e della bolla equities sia statunitense, sia cinese, sia europea, c’è la forte probabilità che invece della sana correzione che il mercato dovrebbe imporre, si vada ulteriormente in rally, almeno per un breve periodo. Ma attenzione, nulla è come sembra, quindi preparatevi a una tesi che vi sembrerà folle, ma che temo invece si avvicini molto alla realtà. Una realtà che ha un nome, anzi un acronimo: Qe4.
Partiamo dal perché della probabile rottura di nuovi record da parte delle Borse: a Wall Street questa settimana ricominciano i buybacks azionari delle principali aziende quotate. E che ritorno che ci attende, visto che stando a Goldman Sachs e agli annunci della varie majors parliamo di riacquisti di titoli propri per un controvalore di quasi un triliardo di dollari solo quest’anno, una cifra pari al ciclo annuale più ampio di Qe operato dalla Fed. Di più, i buybacks saliranno del 18% quest’anno con un incremento dei dividendi del 7%, visto che soltanto sull’indice S&P’s 500 i buybacks da inizio anno hanno totalizzato quota 265 miliardi di dollari, il 59% in più dello stesso periodo del 2014. Il primo grafico a fondo pagima ci spiega meglio la situazione. Ciò che però questo grafico di Goldman non spiega è chi sono i grandi venditori netti di titoli, visto che per ricomprare occorre che qualcuno voglia cedere: e sapete chi sono? Gli stessi dirigenti delle aziende che operano i buybacks, i quali monetizzano quello che non è altro se non un circolo vizioso nel grande casinò della Fed! E il secondo grafico ci mostra chiaramente la dinamica ma anche il comparto principale di chi vende, ovvero quello tecnologico: quindi, i manager delle aziende quotate al Nasdaq completamente in bolla, ma a livelli di quotazione record, stanno scaricando le loro azioni monetizzando e lo fanno pagati dalla stessa azienda per cui già lavorano, la quale è ben contenta di comprare i loro titoli alle quotazioni più alte mai viste!
Il terzo grafico, che ho già pubblicato l’altro giorno, merita di essere posto nuovamente alla vostra attenzione, sia per farvi capire la reale sostenibilità dei corsi dell’indice tecnologico Usa, sia alla luce dei risultati trimestrali record presentati lunedì sera da Apple stessa, la quale ha chiuso con un fatturato di 58 miliardi di dollari e un utile netto di 13,6 miliardi di dollari, pari a 2,33 dollari per azione diluita. Questi risultati si raffrontano con quelli dello stesso trimestre dell’anno passato in cui l’azienda aveva registrato un fatturato di 45,6 miliardi di dollari e un utile netto trimestrale di 10,2 miliardi di dollari, pari a 1,66 dollari per azione diluita e le vendite internazionali hanno rappresentato il 69% del fatturato trimestrale. Grazie a cosa? «La crescita è stata alimentata dalle vendite record per il secondo trimestre di iPhone e Mac e dai risultati record di sempre dell’App Store». Quindi, il primo che sento ancora contestare la finanza e le banche ladre e inneggiare a “Occupy Wall Street” con un Iphone d’ordinanza in tasca, lo inviterò a leggere qualcos’altro oltre alle app per trovare il miglior sushi bar in zona.
Detto questo, i dati forniti da Goldman Sachs ci dicono invece che con gli oltre 900 miliardi di dollari di buybacks già autorizzati per quest’anno, le corporations Usa stanno non solo lastricando la strada per annegare nuovamente nel debito, ma soprattutto stanno per iniettare nel sistema più liquidità di quanto fatto dalla Fed nel picco del Qe! Un’enorme partita di giro, niente di più e niente di meno. Eppure Goldman nel suo report dice una cosa chiara alle aziende: smettete di riacquistare vostre azioni. Perché? «La finalità di un manager di portafoglio è predire cosa accadrà, non cosa dovrebbe accadere… E comunque, da un punto di vista strategico, i management in molti casi renderebbero un servizio migliore ai loro azionisti tentando delle acquisizioni». Per le quali, gli specialisti di Goldman Sachs – vedi per le due diligence -, prendono laute commissioni.
Ma, a parte questo, c’è dell’altro e ve lo spiegherò chiaramente tra poco: di fatto, Goldman sta solo aspettando che la bolla esploda o si dilati e che fondi, aziende e financo Banche centrali siano disposte a vendere a qualsiasi prezzo pur di disfarsi del malloppo. A quel punto, comprerà a 60 ciò che oggi vale 100, in attesa del nuovo ciclo di Qe che farà di nuovo ripartire i corsi e farà tornare quel 60 almeno in area 80-85, se non oltre. Perché sono sicuro che la Fed, invece che alzare i tassi già a settembre come prevedeva ieri Markit, sarà costretta a stampare di nuovo? Il mercato in questi giorni sta mandando segnali silenziosi in tal senso.
Guardate i primi tre grafici a fondo pagina: i fondi si stanno riposizionando e hanno ridotto al minimo da un anno le posizioni ribassiste sul Russell 2000, l’indice delle small cap del mercato azionario Usa, mentre non sono mai stati così ribassisti sull’obbligazionario a lunga scadenza e soprattutto sull’indice della volatilità (Vix), con gli shorts ai massimi da un anno. Non mi paiono, a occhio, riposizionamenti da timore per una turbolenza sistemica da rialzo dei tassi. E se non siete ancora abbastanza schifati rispetto alla Borsa Usa (ma non solo) e al suo funzionamento negli anni della grande centralizzazione del mercato, ho dell’altro per voi.
Il 10 febbraio scorso la Valeant Pharmaceuticals International ha comprato i diritti per due farmaci cardiaci salvavita: nello stesso giorno dell’acquisizione, il prezzo a listino dei due farmaci è salito rispettivamente del 525% e del 212%. I due farmaci si chiamano Nitropress e Isuprel e non hanno subito alcuna modifica in laboratorio nella loro composizione tale da giustificare quell’aumento con costi legati alla ricerca: «Il nostro dovere è verso gli azionisti e verso la massimizzazione del valore», ha dichiarato filantropica la portavoce dell’azienda, Laurie Little. Ma non pensiate che il caso della Valeant sia unico, anzi. Come ci mostra il quarto grafico, negli ultimi tempi sono sempre più le operazioni di acquisizione tra case farmaceutiche, con i medicinali ritenuti sottovalutati che vengono acquistati e immediatamente ritoccati al rialzo nei listini. Ma non solo, molte aziende alzano senza giustificazione il prezzo di vecchi medicinali quando hanno già in produzione la nuova versione, la quale viene quindi lanciata a pezzo ancora più alto.
Dal 2008 a oggi, guarda la coincidenza temporale a volte, il prezzo dei medicinali non generici negli Usa è salito del 127% contro l’11% dell’indice dei prezzi al consumo: di più, negli ultimi due anni e mezzo c’è stato il 50% in più di aumenti dei prezzi dei farmaci rispetto alla decade precedente. D’altronde, alzare i prezzi è la via più veloce per il profitto, evitando lunghi e costosi processi di ricerca in laboratori per nuovi farmaci più efficaci.
Peccato che questa logica ricada sui costi della sanità e quindi sui servizi ai cittadini (e nonostante Obamacare, sapete tutti come funziona la sanità negli Usa): la Cleveland Clinic ha recentemente reso noto che solo l’aumento dei due farmaci cardiaci della Valeant comporterà un aumento di spesa non preventivato di 8,6 milioni di dollari, circa il 7% del suo budget annuale di 122 milioni per gli ospedali che amministra.
Volete altri casi? Eccone uno. All’inizio dell’anno scorso la Mallinckrodt PLC ha pagato 1,4 miliardi di dollari per l’acquisizioni della Cadence Pharmaceuticals e soprattutto per il suo gioiello, un liquido antidolorifico per iniezioni chiamato Ofirmev, il quale però dalle previsioni basate sul dato del 2013 garantiva profitti solo per 110,5 milioni di dollari. Tre mesi dopo, il pezzo di listino per un pacchetto da 24 fiale di Ofirmev era salito di due volte e mezzo a 1.019,52 dollari, stando a dati ufficiali della Truven Health Analytics. I quattro ospedali pubblici di Salt Lake City, nello Utah, hanno visto salire il costo mensile per l’utilizzo del farmaco a 55mila dollari contro i precedenti 20mila circa.
E ancora, la Horizon Pharma Plc sul finire del 2013 acquistò i diritti sulle pastiglie anti-dolorifiche Vimovo dalla concorrente AstraZeneca: il 1 gennaio 2014, primo giorno di vendita sotto la nuova etichetta, il prezzo per una confezione di Vimovo da 60 pastiglie era salito a 959,04 dollari, un aumento del 597%, stando a dati Truven e come confermato dal grafico a fondo pagina.
Tutte queste informazioni le ho ricavate da una splendida inchiesta del Wall Street Journal di lunedì, della quale ovviamente la grande stampa e i grandi mezzi televisivi italiani non hanno fatto menzione, vista la quantità di inserzionisti del ramo farmaceutico che hanno e la lotta senza esclusione di colpi per accaparrarsi pubblicità. E questo dovrebbe dirvi molto: è tornato il sano, vecchio giornalismo d’inchiesta Usa, quello con la schiena dritta stile Watergate? Forse, lo spero anzi, ma temo che questa sparata sia un atto prodromico ad altro.
Sarà infatti una coincidenza, ma nel giorno della pubblicazione dell’inchiesta, la performance dell’Etf del ramo Biotech, l’Xbi, a Wall Street è stata pessima: giù di quasi il 7% su altissimi volumi di scambio e ancora una volta al di sotto di quota 50Ddma, “Direct Market Access”, ovvero il trading elettronico che permette agli investitori di interagire con l’order book di un listino. Dunque, Goldman Sachs che spara contro i buybacks che sono di fatto il pilastro unico che mantiene in piedi il casinò di Wall Street ed evita che la bolla esploda e il Wall Street Journal che attacca frontalmente le aziende farmaceutiche e di fatto fa schiantare l’Etf del settore: sarà, ma a me questa faccenda della principale banca d’investimento e del principale organo di informazione finanziaria santi e martiri in nome del mercato libero e giusto non quadra proprio. E mi fa propendere per la scelta di un peggioramento controllato della situazione che, magari unito al dato del Pil Usa del primo trimestre che verrà diffuso oggi, possa non solo rimandare al 2016 il rialzo dei tassi, ma di fatto spianare la strada al Qe4, cioè a un nuovo mondo di stimolo permanente dove sono le Banche centrali a fare il mercato.
In gergo tecnico si dice che siamo potenzialmente al top di una “blow off” della bolla, ovvero la fase immediatamente precedente allo scoppio che a volte è caratterizzata proprio da forti rally garantiti dall’euforia del parco buoi, mentre come vi ho già detto ieri e l’altro ieri, gli investitori professionisti stanno già scappando dal mercato. Purtroppo, le metriche storiche ora valgono molto meno per decodificare la situazione, visto che la variabile dell’intervento – diretto o indiretto – della Banche centrali ha un peso preponderante sull’andamento dei mercati.
Se infatti si vuole la correzione come alibi, bisogna stare attenti che le forze reali di mercato non tramutino una slavina in una valanga epocale, ma visto che la Bank of Japan opera già direttamente sui mercati e la Fed può comprare futures sull’indice S&P’s 500 per statuto, il tutto appare sì rischioso, ma non totalmente suicida. Che siamo in bolla è chiaro, altrimenti come spiegare lo Shanghai Index che raddoppia in meno di un anno o Amazon, azienda enorme e ben gestita ma con un core-business di basso margine che vede il suo titolo salire di più del 50% in Borsa in soli quattro mesi?
D’altro canto, il margin debt a marzo è salito ai massimi storici, dati della Borsa di New York, segnale che ricalca il pattern delle precedenti fasi di pre-esplosione della bolla, nel marzo 2000 e nel luglio 2007: si crede al mercato eterno e ci si indebita per comprare titoli, mentre al Nasdaq i dirigenti delle aziende quotate vendono i loro titoli alla stessa azienda e i player professionisti scappano con le valutazioni ai massimi. Insomma, scoppia o non scoppia? Io propendo per la mia tesi, la Fed darà vita al Qe4. Questo, a mio modo di vedere, potrebbe imporre perdite a qualcuno, ma, stando alle dinamiche, potrebbero essere limitate per i giganti divenuti stra-miliardari e pesanti per il solito parco buoi, la vedova del Winsconsin o la massaia cantonese che fa trading da casa sulla Borsa di Shanghai.
Sembra un film, ma è tutto vero. Certo, se solo si sbaglia una mossa o entra in azione il proverbiale granello di sabbia, allora sono dolori.
P.S.: L’onda lunga dell’inchiesta del Wall Street Journal sembra proseguire e ieri ha spedito l’Etfbiotech in territorio di ufficiale correzione, -10,8% in due giorni. Ovvero, bruciato un mese di rally di rimbalzo con volumi di scambio altissimi. Ci attende il primo caso di correzione mediaticamente indotta della storia? Io resto della mia idea.