SPY FINANZA/ Banche, il dato che fa paura all’Italia
Mentre in Italia si è concentrati su Marino e Crocetta, dice MAURO BOTTARELLI, ci sono dati decisamente allarmanti e pericolosi per l’economia a livello globale
In questi giorni di calura estiva, l’Italia sembra interessata solo a due argomenti: Roma e il suo valzer di poltrone e la Sicilia di Crocetta, dopo lo scandalo dell’intercettazione pubblicata da L’Espresso. Temi importanti, per carità, quasi come la partita a biliardino tra Matteo Renzi e Matteo Orfini alla Festa dell’Unità nella Capitale, peccato che qualcuno stia giocando con il fuoco. Se infatti ieri la prima notizia di tutte le pagine economiche era il passaggio di Italcementi ai tedeschi di Heidelberg Cement (sintomo che le aziende sane in Italia ci sono e fanno gola, peccato che la gran parte delle altre siano invece amministrate come Atac o strozzate da un sistema bancario che non eroga credito o da una Pubblica amministrazione che non paga i debiti), meno attenzione ha suscitato uno studio curato da R&S Mediobanca sulle principali banche internazionali.
E cosa si scopre? Che il conto che l’Europa ha pagato per la crisi bancaria tra il 2009 e il 2014 è stato più salato di quello della crisi greca che ha riempito le prime pagine dei quotidiani per settimane, quasi si trattasse dell’atomica su Hiroshima. La crisi bancaria è infatti costata agli Stati europei, tra iniezioni di capitale pubblico e minori imposte incassate, qualcosa come 221 miliardi di euro, una cifra pari a 1,2 volte il Pil dell’intera Grecia (179,2 miliardi nel 2014) e superiore di circa 70 miliardi a quanto pagato dagli Usa (143 miliardi di dollari). Il dato, tra l’altro, fotografa solo le big del credito mondiale e non include le landesbank tedesche, le casse di risparmio spagnole e tutti gli istituti minori (per l’Italia, ad esempio, sono considerate solo Unicredit e Intesa San Paolo).
Solo tra multe e svalutazioni, le banche europee hanno bruciato 178,5 miliardi di euro tra il 2011 e il 2014. Nel dettaglio, stando a quanto ha ricostruito R&S Mediobanca, gli Stati europei hanno visto calare negli anni della crisi le tasse incassate dalle maggiori banche di 87 miliardi di euro, complice la riduzione degli utili del settore e in più hanno iniettato nei grandi istituti in crisi quasi 180 miliardi attraverso aumenti di capitale di cui finora solo 46 miliardi restituiti. Invece, le banche americane hanno pagato circa 103 miliardi di tasse in meno tra il 2009 e il 201,4 ma hanno restituito oltre 157 miliardi dei 196 miliardi di euro ricevuti dallo Stato, riducendo così a oggi il saldo della crisi a 142,5 miliardi di euro.
Al contempo, gli oneri straordinari che hanno appesantito i conti degli istituti di credito europei e americani tra il 2011 e il 2014 hanno sfiorato i 300 miliardi di euro. Nel Vecchio continente svalutazioni e avviamenti sono costati 116 miliardi, a cui si sommano poco meno di 62 miliardi per contenziosi e risarcimenti legati a frodi: meno pesanti, invece, le svalutazioni per i colossi Usa (11,7 miliardi) che hanno dovuto sborsare però 76,4 miliardi di euro per fare fronte alle vicende legali, ovvero a casi accertati di manipolazione vera e propria del mercato – vedi il futures aurei o il Libor – dai quali sono usciti con la fedina penale linda a suon di dollari (una cifra frazionale rispetto a quella guadagnata grazie a quelle violazioni).
Dallo studio curato da R&S Mediobanca è anche emerso che le banche retail rendono più dell’investment banking: per le prime il Roe medio si è attestato in Europa al 5,1% e negli Usa al 12,8% contro, rispettivamente, il 3% e il 5,8% del secondo. Superiori anche altri indicatori, incluso l’apprezzamento della Borsa, con un rapporto tra prezzo di mercato e valore del patrimonio netto che risulta di circa il 30% più alto in chi concede più credito. Un solo neo: quello della banca commerciale resta un mestiere pagato di meno. In Europa il costo del lavoro per dipendente è di 77mila euro contro i 107mila di chi lavora nell’investment banking (96mila dollari contro 121mila negli Usa).
Quanto alle banche italiane, all’inizio di quest’anno sono tornati a crescere i crediti concessi alla clientela: nel primo trimestre si è infatti registrato un incremento dell’1,9% rispetto a un anno prima, la prima variazione positiva da settembre 2011, peccato che con la Bce entrata all-in sul mercato obbligazionario con il Qe e i tassi a zero, quel dato fosse atteso da tutti – Draghi in testa – ben superiore. Come al solito, qualcuno fa il furbino (e ricordate sempre che per l’Italia stiamo parlando solo delle due banche principali), mentre è ai massimi da quasi quattro anni la redditività degli istituti italiani con il Roe al 6,6%. Insomma, piaccia o meno, le banche sono il motore ma anche il problema, con buona pace del rimpasto di giunta a Roma.
Il guaio è che in contemporanea con lo studio di R&S Mediobanca è uscito anche l’outlook mensile dell’Abi, ovvero il bollettino statistico a cura dell’Associazione bancaria italiana. E cosa si scopre, riferendosi in questo caso ai dati di maggio 2015? Che come prevedibile e inevitabile la traiettoria delle sofferenze bancarie italiane è perfettamente in linea con quella spagnola o greca, solo traslata di qualche trimestre: in particolare, le sofferenze nette rapportate al capitale più riserve (ovvero quelle sulle quali le banche non hanno ancora messo coperture a bilancio) stanno continuando a salire e dunque a erodere il “margine” di sicurezza costituito dal capitale delle banche. E lo stanno facendo a livello di record, visto che a maggio 2015 il peso percentuale delle sofferenze bancarie italiane rispetto a capitale e riserve è arrivato al 20,58%! Ma niente, sui giornali un trafiletto e via (con le banche nei cda dei grandi gruppi editoriali, difficile informare con indipendenza), mentre si sprecano le paginate per gli strepiti di qualche politico perché sugli autobus di Roma non funziona l’aria condizionata: signori, avanti di questo passo e con una recessione globale che è alle porte, se non si fa qualcosa non ci saranno nemmeno più gli autobus per strada!
Non ci credete? Bene, il Wti, il petrolio statunitense, è ufficialmente in bear market, giù di oltre il 20% nelle ultime sei settimane e fino a prova contraria, il prezzo del petrolio – al netto della sovraproduzione da mal-investment – qualcosa a che vedere con lo stato di salute delle economie reali ce l’ha. E proprio ieri il gigante Chevron ha annunciato il taglio di 1500 posti di lavoro a livello globale. Guardate poi il primo grafico a fondo pagina, il prezzo del rame si sta letteralmente schiantando da inizio anno e con lui tutte le materie prime, sintomo anche questo della fine del super-ciclo e di una prospettiva recessiva. E ora guardate il secondo grafico, ci mostra come il volume del commercio mondiale sia ai minimi dal giugno 2014, altro canarino nella miniera destinato a morire per dirci che madama recessione è di nuovo tra noi.
E la Cina? Non metto bocca sul mercato azionario, vi avevo già detto tutto ben prima che l’argomento comparisse su giornali e tv e ribadisco il mio pensiero al riguardo, il problema è che l’altro giorno è arrivato un dato ben peggiore della correzione del 30% dell’indice di Shanghai dai massimi dello scorso 12 giugno (mi limito a dirvi che ieri nell’ultima mezz’ora di trading il governo ha iniettato 100 miliardi di dollari sul mercato attraverso uno dei suoi Fondi sovrani, diventando acquirente di prima e ultima istanza: ecco spiegato il +3 e rotti per cento). Ovvero, i consumi elettrici in Cina a giugno sono cresciuti al ritmo più lento degli ultimi 30 anni, quindi al netto del dato farsa del Pil a 7% anche nel secondo trimestre, la fabbrica globale cinese sta non solo rallentando ma inviando i primi segnali di crisi strutturale.
E vogliamo parlare degli Usa, il Paese con cui tutti si riempiono la bocca per dimostrare come le politiche keynesiane di spesa pubblica stimolino l’occupazione? Bene, a giugno i nuovi ordinativi di beni durevoli sono calati per il quinto mese di fila, mentre proprio l’altro giorno è stato reso noto il dato sulla fiducia economica e dei consumatori, ai minimi da dieci mesi a questa parte, come ci mostrano i grafici più in basso, con la componente “speranza” scesa da 92.8 a 79.9.
Lo so, queste cose non ve le dice nessuno, ma è giusto che le sappiate, perché mentre qui ci preoccupiamo del Campidoglio, il mondo sta per infilarsi bellamente in una nuova recessione e in un contesto ben peggiore di quello dell’ultima del 2007-2008, visto che il debito privato e pubblico è più alto, i tassi sono a zero da sei anni, le Banche centrali hanno giù stampato come pazzi e la Cina all’epoca era il driver globale e non un corpaccione in rallentamento con un mercato azionario che sembra un casinò di quart’ordine.
Attenti a quel dato dell’Abi, quello deve farci paura. E il governo, tra una partita di biliardino e un ultimatum a Crocetta, sarà il caso che si svegli con la bad bank. E che tenga occhi aperti e personale vigile in via XX Settembre per tutto agosto, non si sa mai.
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