FINANZA/ Paradise Papers, “amici” e finanziatori stanno a Washington

- Chris Foster

Paradise papers non è una rivelazione mediatica, ma uno scandalo attentamente preparato. Per fini politici, da poteri sovranazionali. E Robin Hood non c'entra nulla. CHRIS FOSTER

tim_cook_apple_scuola_lapresse_2017 Tim Cook, Ceo di Apple, in una scuola (LaPresse)

Caro direttore,
in un momento storico in cui la disuguaglianza di reddito e di ricchezza sta raggiungendo nei paesi avanzati livelli mai registrati negli ultimi decenni, notizie di elusione o evasione fiscale di alto profilo suscitano sdegno se non addirittura forme di odio sociale. 

Tali sentimenti possono essere abilmente gestiti e indirizzati da varie forme di potere sovranazionale. 

Chi coordina questi scandali mediatici, come da ultimo il cosiddetto “Paradise Papers” — arrivato, si noti, ad un anno di distanza dal ben più serio Panama Papers — ha come obiettivo la distruzione dell’immagine di alcuni individui o gruppi per fini politici, senza toccare minimamente l’aspettativa di un ritorno per il fisco dei paesi considerati defraudati.

Purtroppo i fini politici sono abbastanza opachi, proprio quanto i finanziatori e gli ideatori dell’operazione Paradise Papers: questo rende necessaria una grande accortezza nel giudicare la logica ultima di quest’operazione. Insomma, Robin Hood proprio non c’entra.

Nessuno ha rilevato che l’operazione Paradise Papers è frutto di un furto di dati (quindi un crimine grave con conseguenze di immagine in molti casi gravissime per alcune vittime del furto, che magari nulla hanno a che vedere con l’evasione fiscale) consegnati al quotidiano progressista tedesco Süddeutsche Zeitung. Più di 10 milioni di documenti sono ora in mano a un gruppo di giornalisti (www.icij.org) che giorno dopo giorno decidono di presentare degli scoop, attraverso i loro “distributori locali” — quali l’Espresso per l’Italia — secondo criteri a noi sconosciuti e con un livello di amplificazione mediatica ben studiato.

Praticamente in ogni paese industrializzato e non solo, una testata ascrivibile al mainstream progressista si è resa disponibile a “distribuire” il risultato di inchieste coordinate a Washington, dando molto abilmente alla pubblicazione dei dati una “coloritura” locale (vedi i nomi italiani). 

I lettori in buona fede, o tutti coloro che normalmente si tengono informati, si sono probabilmente fatti l’idea che questa divulgazione sia frutto di una sorta di scoperta estemporanea o miracolosa. Nulla di più sbagliato. Un’operazione del genere non si fa dalla sera alla mattina. Le “liste” pubblicate si possono ottenere solo mediante un lavoro di mesi da parte di decine di specialisti e avvocati fiscalisti. Non basta qualche zelante cronista di un quotidiano bavarese e questo conferma, se ce ne fosse bisogno, che il piano necessita di un livello di coordinamento più “alto”.

La maggioranza dei documenti trafugati non sembra legata a operazioni di evasione fiscale, ma piuttosto a operazioni di ottimizzazione fiscale e societaria o di pianificazione familiare. Tutte cose che sollevano certamente alcuni punti interrogativi, che lasciano spazio anche a giudizi severi, ma che vanno ricondotti nel loro argine etico e raramente hanno connotazioni penali, da quello che ci hanno presentato a oggi. E’ certo che molti criminali di paesi in via di sviluppo hanno usato strutture societarie offshore e i brandelli di segreto bancario rimasto in alcuni paesi non cooperativi sul fronte fiscale, ma al momento non vi è traccia o non è stata data visibilità a tutto ciò. Peccato. Forse è giornalisticamente più interessante denunciare il jet privato di Hamilton regolarmente registrato a Guernsey che il patrimonio miliardario (cioè la refurtiva) di un dittatore africano amico degli Usa.

Vale la pena leggere gli ultimi numeri de l’Espresso. Il prestigioso settimanale italiano, non essendo riuscito a individuare con certezza un solo euro di evasione fiscale nei nomi italiani individuati e ad oggi pubblicati, si sta lasciando andare a congetture strampalate e argomentazioni quasi imbarazzanti (per i giornalisti stessi). E’ palpabile la difficoltà dei giornalisti a individuare un solo caso interessante su cui affondare l’attacco. Verrebbe da dire che non si riesce a trovare nemmeno uno yacht di Briatore battente bandiera panamense a cui attaccarsi.

Un suggerimento. Ci piacerebbe piuttosto vedere nella grande inchiesta in corso qualche riga in più, qualche commento e qualche reazione politica sulle decine di miliardi di dollari abilmente (e crediamo, legalmente) sottratti al fisco da parte di multinazionali come Apple e Nike: non solo i loro Ceo si presentano e si atteggiano a illuminati leader morali e intellettuali della nostra società, ma sono — per affinità spirituale — assai vicini ai supporter dell’inchiesta.

Si potrebbe approfondire ulteriormente, se da Washington non mandano materiale scottante a sufficienza.





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