«L’Europa ha fatto orecchie da mercante sul desiderio della Catalogna di votare per l’indipendenza dalla Spagna. E il pugno duro di Madrid alimenterà solo l’affluenza al voto». Parole del leader catalano, Carles Puigdemont, interpellato da Ap, quando mancano ormai solo due giorni al referendum sull’indipendenza, duramente osteggiato da Madrid che lo ritiene illegale. Non entrando nel merito della questione catalana, qualcosa fa riflettere e sembra dare ragione al leader separatista: l’Ue mette becco normalmente in qualsiasi cosa, organizza vertici anche se si intasa il gabinetto all’Europarlamento e non dice una singola parola su un conflitto interno all’Unione che vede addirittura due forze di polizia, la Guardia Civil spagnola e i Mossos d’Esquadra catalani, uno contro gli altri, dopo la decisione di Madrid di porre i secondi sotto il controllo di un generale della prima, di fatto commissariandone l’autorità e l’indipendenza? Non so a voi, ma a me l’idea che domenica due entità statali armate siano su sponde contrapposte fa paura e inquieta da morire, altro che Kim Jong-un: come fa l’Europa a tacere?
Madrid ha addirittura affittato una nave da crociera per ospitare gli agenti della polizia nazionale da dispiegare in caso di disordini, qualcosa come 16mila uomini in totale, alcune migliaia dei quali in queste ore hanno chiuso altri due siti di movimenti indipendentisti catalani favorevoli al referendum di domenica. Nella notte sono state oscurate le pagine web di Omnium – insieme all’Anc una delle due grandi sigle della società civile indipendentista – e del partito Cup, mentre negli ultimi giorni sono stati chiusi oltre 140 siti. Una situazione paragonata a quelle di Turchia e Corea del Nord dal portavoce del governo autonomo, Jordi Turull. Difficile dargli torto e, alla luce dello strepitare di Bruxelles rispettivamente alle situazioni di quei due Paesi, suona stonato il silenzio totale delle autorità comunitarie. Le quali, ieri, si sono limitate a questo: «Rispettiamo l’ordine costituzionale della Spagna«, ha dichiarato un portavoce della Commissione Ue, Alexander Winterstein, ribadendo la posizione dell’esecutivo comunitario, alle domande dei giornalisti. Un po’ pochino, alla luce dei rischi potenziali.
Perché se ieri migliaia di studenti hanno manifestato pacificamente a Barcellona in appoggio al “diritto di decidere” del popolo catalano, al grido di “No alla sospensione della democrazia”, poche ore prima – proprio a Bruxelles, nel corso di una conferenza stampa -, il ministro degli Esteri del governo autonomo catalano, Raul Romeva, era stato molto chiaro: «Se vincerà il sì nel referendum di domenica in Catalogna, 48 ore dopo la pubblicazione dei risultati il Parlamento approverà una dichiarazione di indipendenza unilaterale. Se c’è una maggioranza che voterà no, dovremo accettare i risultati. Ci dimetteremo, convocheremo nuove elezioni regionali e la vita continua». Non a caso, alla luce di questa escalation, in una lettera ai colleghi delle 27 capitali Ue, il sindaco di Barcellona, Ada Colau, ha chiesto ieri una mediazione della Commissione europea nella crisi catalana.
Colau, eletta con Podemos, sottolineava che il conflitto catalano non è una questione interna spagnola e deve essere affrontato nella sua dimensione europea: «L’Europa non può non reagire alle minacce ai diritti e alle libertà fondamentali che l’offensiva di Madrid provoca in Catalogna». Reazione? Zero. Anche perché, in concomitanza con una delle situazioni più delicate che l’Ue vive dal weekend del voto sul Brexit, anticipato dall’omicidio della deputata Jo Cox, le autorità comunitarie si riuniranno a Tallin per un vertice nel quale si deciderà nulla o poco più come sempre, ma che garantirà un piacevole fine settimana agli alti papaveri, altrimenti costretti ad annoiarsi a casa con mogli e figli. Mariano Rajoy, premier spagnolo, non ci sarà: resterà a Madrid per monitorare la situazione e, se necessario, prendere decisioni d’emergenza. Non sarebbe stato un bel segnale da parte dell’Ue posticipare l’inutile, ennesimo vertice per dimostrare attenzione verso quanto sta accadendo in Catalogna? E poi, ripeto, com’è possibile che nessuno si sia sentito in dovere di cercare una mediazione, quando parliamo di Guardia Civil che sequestra schede, sigilla seggi ed è pronta ad arresti di massa? Stiamo parlando della Spagna, non del Ciad.
Qualcosa non torna e lo dico non limitando il mio ragionamento al mero scenario catalano: guardate questa copertina, passata stranamente sotto silenzio. È quella dell’Economist della scorsa settimana e vede Jeremy Corbyn in veste di delicato e rassicurante inquilino del 10 di Downing Street. Come sapete, immagino, l’Economist non si limita a raccontare i leader, li indica e li incorona prima ancora dei parlamenti, dei congressi e delle elezioni. Fu infatti il settimanale della City a tirare per primo la volata alla Cool Britannia del New Labour con una campagna martellante a favore della figura di Tony Blair. E, tornando all’oggi, il tutto andando in edicola il giorno precedente al discorso di Theresa May a Firenze sul Brexit, una data a dir poco simbolica e un passo formale destinato a colpire al cuore proprio l’Unione europea. La quale, ciliegina sulla torta, due giorni dopo ha dovuto prendere atto, non certo con soddisfazione e sollievo, del risultato delle elezioni politiche tedesche.
E cosa ha detto giovedì Jeremy Corbyn al congresso annuale del Labour a Brighton, parlando di «socialismo per il ventunesimo secolo e nuovo modo di fare politica»? «Siamo alla soglia del potere», alludendo ai sondaggi che danno sempre più in difficoltà i Tories e il loro governo di minoranza. E come si è conclusa l’assise? Con l’intero palazzo che cantava “Bandiera rossa” con il pugno alzato? Non vi pare strano che l’Economist tiri la volata a un soggetto e a una prospettiva politica simile? No, affatto. Perché le elites, quando sono stanche degli utili idioti che hanno spinto al potere per operare in base a un’agenda nascosta e predeterminata, li cacciano. In un modo o nell’altro. Basti vedere alcune strane fini ingloriose e repentine come quelle di Dominique Strauss-Kahn all’Fmi (stranamente, dopo aver parlato di fine del dollaro come moneta benchmark globale) e Ignacio Lula in Brasile, quando cominciava a esagerare troppo con certe politiche populiste. Jeremy Corbyn serve soltanto a bloccare il Brexit, il cui termine operativo è già stato spostato dalla May al 2021: adorato dai giovani, spendibile sui media, profilo alla Sanders ma tranquillizzante, è lui l’uomo giusto per far cambiare idea ai britannici senza far scoppiare una rivolta.
Le elites hanno deciso. E così sarà, vedrete. Tanto più che l’esecutivo May ha la resistenza di un wafer agli scossoni politici e l’appoggio del Dup nordirlandese non ci vuole molto a farlo saltare, toccando i tasti giusti. Non sarà per questo che l’Ue tace su quanto sta accadendo in Catalogna? Non sarà che dopo lo shock del Brexit, ogni altro precedente secessionista va stroncato sul nascere con ogni mezzo, anche ricorrendo a misure apertamente franchiste e liberticide? In compenso, se scrivi un post contro l’immigrazione su Facebook, ti ritrovi la Digos alla porta in ossequio alle politiche contro il “linguaggio dell’odio”. Io non vedo altra risposta all’inazione e al silenzio di un’istituzione come l’Ue che solitamente mette becco in tutto e ora, invece, fa parlare i portavoce con dichiarazioni protocollari.
Pensateci, perché per quanto la legge sia dalla parte di Madrid in punta di sentenza, qui c’è in ballo qualcosa di più dell’indipendenza di Barcellona.