Affamare la bestia. Se c’era qualche dubbio residuo che questo sia il mantra imposto dalle autorità cinesi ai regolatori di mercato, le ultime performance del mercato azionario del Dragone lo ha fugato. A colpi di crolli. Ovviamente, passati sotto silenzio dai media, troppo impegnati ad abbaiare alla luna dello spread. Il mercato equities cinese ha perso circa il 30% dai massimi di gennaio, come mostra il grafico, un tracollo che se traslato su Wall Street avrebbe fatto scendere in campo frotte di analisti e commentatori e spinto Netflix a mettere in cantiere la versione del Dragone di Margin call: qui, invece, pare la norma. Ma la norma non è. Il fatto è che o si ha presente quale sia la partita reale in atto oppure certe dinamiche vengono ancora lette e interpretate con la chiave di lettura del crollo del mercato dell’estate 2015.
Bene, oggi siamo all’opposto. Shanghai continua a cedere per mancanza di liquidità e così Shenzhen, ai minimi da 52 settimane, non per la bolla creata dal suo eccesso come invece accadde tre anni fa. Ed è una scelta precisa delle autorità, non una dinamica di fine ciclo. Affamare la bestia, sgonfiare – anche a colpi anche di cali azionari – la bolla, prima che esploda in maniera non controllata. Un’operazione delicatissima, roba degna del disinnesco della bomba piazzata sotto la tavoletta del wc in Arma letale: se si sbaglia filo, se si tocca qualcosa fuori posto, si salta in aria. Fine ingloriosa.
E per capire quanto sia non fondamentale, ma addirittura vitale contrarre la politica monetaria, fino quasi all’asfissia del sistema, basti un dato: il centellinare liquidità della Pboc sta mettendo a rischio qualcosa come 603 miliardi di dollari di titoli azionari piazzati come collaterale per ottenere prestiti, all’incirca il controvalore dell’11% della capitalizzazione del mercato cinese. Se va male, la liquidazione entrerà in modalità “palla di neve” e il mercato rischia di precipitare in una spirale ribassista devastante. A quel punto, la Margin call cinese avrà bisogno di una serie lunga come Beautiful. Bene, a Pechino pensano che il rischio valga la candela. Quindi, potete ben capire quale sia la posta in palio nella guerra di nervi con Washington per vedere quale delle due Banche centrali smetterà prima con il Quantitative tightnening, la contrazione monetaria post-Qe e ricomincerà a stampare. O, nel caso della Fed, quantomeno smetterà di rialzare il costo del denaro.
E qui non si tratta meramente di valutazioni politiche, sono i numeri a parlare e a spiegare chiaramente il perché la Banca centrale cinese stia centellinando la liquidità, limitandola a iniezioni mirate nei settori più a rischio e sensibili dell’economia interna, onde evitare pericolosi “effetti palla di neve” sui bond delle società industriali. Un qualcosa che, di fatto, si sta già sostanziando, però. Questo grafico parla chiaro ed è stato pubblicato da Goldman Sachs nell’ultimo report sul tema: il 2018, infatti, è già oggi destinato a passare alla storia come l’anno record per i default, 19 in totale, quando ancora mancano tre mesi al 2019. Il precedente massimo era stato raggiunto con 18 nel 2016 e in termini di ammontare nozionale di bond che hanno fatto default, si sono raggiunti i 91,4 miliardi di yuan, equivalenti allo 0,5% di tutti i bond in circolazione da inizio anno e in aumento del 69,6% rispetto ai 53,9 miliardi di yuan di due anni fa.
Soltanto fra agosto e settembre si sono registrati otto default, un trend preoccupante sia perché proprio a fine luglio la Pboc era intervenuta con le sue misure draconiane per evitare gli eccessi sul credito, sia perché le aziende coinvolte sono di dimensioni sempre maggiori, fra cui la Neoglory Holding Group, la Jilin Liyuan Precision Manufacturing e il Gangtai Group. E ora lo spettro è quello che i default possano andare a intaccare non solo aziende private, come quelle ora elencate, bensì anche imprese a parziale o totale controllo statale, le cosiddette Soe (State-owned enterprises). E il primo caso in tal senso è stato evitato nell’ultimo giorno utile per il pagamento degli interessi su un bond da 300 milioni di dollari dalla Qinghai Provincial Investment Group, la quale opera come China Local Government Financing Vehicle (Lgfv) e il 26 settembre scorso è stata salvata dal default sulla scadenza soltanto da un intervento governativo. Ma non basta. Perché ad aggravare la situazione, a meno di un cambio di politica netto della Pboc verso una dinamica nuovamente espansiva, ci sono necessità di finanziamento enormi per la seconda metà di quest’anno, visto che le aziende cinesi devono fare fronte a bond in scadenza sul mercato interno e offshore per 2.700 miliardi di yuan di controvalore, cui vanno a unirsi altri 3.300 miliardi di prodotti legati a trust, tanto che otto di questi ultimi nel comparto dell’alto rendimento hanno giù dovuto spostare le scadenze di pagamento all’inizio del 2019.
E che la situazione sia potenzialmente esplosiva lo ha confermato non più tardi della scorsa settimana una ricerca di Standard&Poor’s Global Ratings, a detta della quale la Cina potrebbe avere accumulato una montagna di debiti nascosti da 40mila miliardi di yuan (oltre 5mila miliardi di euro), tenuti fuori bilancio proprio dalle amministrazioni locali del Paese, le quali infatti contraggono debiti che non contabilizzano, per evitare i limiti imposti dalle autorità centrali. Stando a S&P’s, si tratterebbe di un problema crescente all’interno del Paese ed è probabile che negli ultimi anni l’entità dei debiti di questo tipo sia aumentata costantemente: «Riteniamo che l’entità dei debiti tenuti fuori bilancio dalle organizzazioni locali possa ammontare a diversi multipli della somma comunicata pubblicamente», hanno scritto le analiste Gloria Lu e Laura Li in una nota. E ancora: «È un iceberg fatto di debiti che rischia di causare una catastrofe creditizia come quella del Titanic, visto che tenendo conto dei debiti nascosti, la percentuale del Pil rappresentata dal debito pubblico potrebbe aver raggiunto il 60% nel 2017, un livello allarmante», tanto più che il debito totale del settore non finanziario del Paese, comprendente il debito delle famiglie, quello delle società e quello delle amministrazioni, sfiorerà il 300% del Pil entro il 2022, in rialzo rispetto al 242% del 2016 e molti temono che qualora quella montagna di debiti continui ad aumentare, possa essere imminente un crollo su più ampia scala.
«Lo scetticismo degli investitori tornerà in scena, se i decisori politici faranno “un passo avanti e due indietro”, quando si scatenerà il contagio causato dai Lgfv insolventi» afferma il report, facendo riferimento alla forte correzione sofferta dai mercati cinesi l’ultima volta che sono emerse gravi preoccupazioni sui livelli di debito in Cina, appunto fra l’estate del 2015 e l’inizio del 2016.
(1- continua)