La diatriba accesa sul progetto di riqualificazione del Beverello nel porto di Napoli, con un confronto dialettico sempre più serrato tra Autorità di sistema portuale (AdSP) del Mar Tirreno Centrale e armatori sul futuro assetto di un’area che movimenta complessivamente 6,5 milioni di passeggeri, riporta indietro le lancette di almeno un quarto di secolo. E svela uno dei nodi irrisolti riguardante le regole minime di riferimento del nostro sistema politico.
In particolare, dell’ultimo intervento pubblico del presidente dell’Acap, l’associazione che riunisce gli operatori del cabotaggio, colpisce lo stupore sul possibile conflitto d’interesse riguardante la proposta di una costruzione (e conseguente gestione) di una stazione marittima con risorse private.
Posizione che, se da un lato denuncia una comune quanto contestabile concezione proprietaria dell’esercizio di una concessione pubblica (i soggetti che “da oltre 70 anni gestiscono i collegamenti delle isole del golfo” sarebbero in virtù di ciò i più qualificati a condurne i servizi), dall’altro fa emergere un ritardo strutturale tipico del Paese. Quell’incapacità di dotarsi dei meccanismi di “check and balance”, tipici dell’ordine liberal-democratico, di cui proprio il dibattito sul conflitto d’interessi cominciato all’alba del ventennio berlusconiano – tra minimizzazione del tema da parte del potere costituito e il suo uso surrettizio come arma di pressione elettoralistica da parte dell’opposizione – rappresenta un caso lampante.
Emerge proprio da queste considerazioni l’aspetto particolare del progetto portato avanti dall’ente portuale guidato da Pietro Spirito e fortemente contestato in questi giorni da armatori e M5s: l’ispirazione, al netto del merito delle procedure adottate che l’AdSP avrà modo di illustrare, a un modello chiaro di gestione delle risorse dello Stato. Tanto più importante perché applicato non alla realtà dell’area portuale, rinchiusa nella sua specializzazione funzionale, ma in relazione viva con una porzione importante di città. Uno schema che al di là della retorica semplicistica sull’eventuale sperpero per l’erario tratteggia invece un ruolo attivo per la funzione pubblica. Di uno Stato che promuove l’infrastrutturazione necessaria ai servizi essenziali, garantendo al tempo stesso parità d’accesso a un mercato che gli interessi particolari, nei limiti leciti della legittimità, hanno tutto l’interesse a sclerotizzare.
Un tentativo che, paradossalmente, risponde sia alle esigenze proprie di una democrazia liberale sia alla richiesta, emersa con prepotenza negli ultimi anni, di un rinnovato ruolo per l’azione pubblica. Sforzo che meriterebbe, da parte delle forze politiche e produttive cittadine e non, una seria e profonda discussione.
È anche per questo che stride, in un ridimensionamento dell’azione di Spirito, il riferimento ai “1.200 giorni di commissariamento” come una sorta di periodo d’incubazione del rilancio dei traffici dello scalo e delle sue priorità progettuali. Certo, piccoli passi sono stati fatti anche durante la lunga parentesi commissariale. Ma è proprio in quegli anni che, denunciata a gran voce da tutti gli operatori, è mancata quella capacità di indirizzo politico, di metodo e merito delle scelte, che ha pregiudicato la posizione dello scalo in un’epoca di grandi cambiamenti nell’economia marittima internazionale.
La posta in gioco della scommessa sul Beverello è dunque alta e andrebbe giudicata nella sua portata complessiva. Senza inutili nostalgie per i tempi degli affollati Comitati portuali, incroci perversi di differenti e conclamati conflitti d’interesse. Il rischio, illustrato lucidamente da Raffaele La Capria, nell’ultimo suo libro, è di sprecare l’ennesima occasione “nella presunzione della piccola identità che vuole a tutti i costi sopravvivere rimanendo uguale a se stessa e imponendo una specie di legislazione della sua verità”.