SPY FINANZA/ La giornata clou per il destino di Bce e Ue

- Mauro Bottarelli

I ministri delle Finanze europei oggi sono chiamati a formulare il loro parere – non vincolante – riguardo il prossimo vicepresidente della Bce. MAURO BOTTARELLI

eurotower_bce_francoforte_lapresse La sede della Bce a Francoforte (LaPresse)

Quasi certamente la notizia non avrà l’onore delle prime pagine dei giornali, ma quanto accadrà oggi pomeriggio a Bruxelles in seno all’Eurogruppo è invece destinato a dirci molto del futuro dell’Eurozona. E, forse, persino dell’euro. I ministri delle Finanze, infatti, si riuniranno per il loro meeting mensile e saranno chiamati a formulare il loro parere – non vincolante – riguardo il prossimo vice-presidente della Bce, in vista della scadenza del mandato di Vitor Constancio, prevista per il 31 maggio prossimo. Come detto, il parere che uscirà dal meeting post-Ecofin non avrà carattere di vincolo sulla decisione finale, la quale spetta infatti a Bce stessa e Parlamento europeo e che è attesa per il mese di marzo, ma, politicamente, appare decisamente interessante capire chi la spunterà fra il ministro delle Finanze spagnolo, il 58enne Luis de Guindos, e il 48enne governatore della Banca d’Irlanda, Philip Lane.

Le cronache danno per favorito il primo, il quale godrebbe dell’importante appoggio di Germania e Francia e già questo dovrebbe farci pensare: de Guindos, infatti, è un politico e non un tecnico e questo, sa da un lato sarebbe la conferma del maggior peso in tal senso di Madrid rispetto a Dublino in seno all’Ue, dall’altro rappresenterebbe quasi un unicum, visto che statutariamente la Bce è indipendente dalla politica e ogni sua mossa dovrebbe essere direzionata verso questa prerogativa. Di più, de Guindos non ha competenza specifica in materia, non ha – a differenza del suo competitor – un master in economia e manca completamente di esperienza come banchiere centrale: in compenso, ha gestito in prima persona le trattativa per il bail-out da 41 miliardi di euro concesso dall’Ue a Madrid per salvare il suo sistema bancario.

E qui, oltre a cascare l’asino, emerge qualche dubbio. Se infatti in molti vedono il supporto dell’asse franco-tedesco a de Guindos unicamente come strategico, ovvero un vice del Sud Europa che garantisca la presidenza post-Draghi a un uomo del Nord, vedi il capo della Bundesbank, Jens Weidmann (pur non essendo la cosiddetta “alternanza geografica” ai vertici del board un qualcosa cui si sia mai riposta troppa attenzione), dall’altro nessuno dimentica che entro la fine del prossimo anno scadranno anche i mandati di Benoit Coeurè, Peter Praet e Daniele Nouy, quest’ultima responsabile della vigilanza e grande cerimoniera dell’addendum rispetto agli accantonamenti obbligatori sulle detenzioni di Npl per le banche europee. Insomma, una rivoluzione totale in seno alla Banca centrale europea, oltretutto in pieno regime di post-Qe, almeno stando agli annunci ufficiali. Perché uno come de Guindos, quindi, quando Philip Lane non solo è alla guida della Banca centrale del Paese – dal 2015 – che si è posto come poster-boy della bontà dell’azione della Troika, basti vedere i dati di crescita irlandesi degli ultimi anni, ma vanta anche un dottorato conseguito ad Harvard e un’esperienza alla Columbia University?

Inoltre, Lane è visto come uomo la cui linea d’azione è molto vicina a quella di Francoforte, pur avendo partecipato al processo decisionale che ha portato al prolungamento del Qe ed essendo molto stimato da Mario Draghi in persona, il quale gli avrebbe chiesto di guidare la task-force incaricata di studiare un “super-bond” europeo. Insomma, un uomo senza esperienza, se non quella di presentarsi con il cappello in mano per chiedere soldi al fine di salvare un sistema bancario disfunzionale, contro un banchiere fatto e finito, apparentemente pragmatico e senza pregiudizi ideologici, stimato da tutti e con grandi numeri da spendere. Eppure sarebbe il primo a primeggiare, oltretutto con il supporto di Berlino e Parigi: dove sta l’inghippo?

Tutto politico. Il buon de Guindos, infatti, sarebbe il premio di consolazione perfetto e, contemporaneamente, la cortina fumogena altrettanto efficace per far prevalere la linea del Nord in seno a una Bce vista finora troppo modellata sul suo governatore, quel Mario Draghi tacciato quotidianamente dalla Bundesbank e dai giornali tedeschi di essere troppo filo-italiano e troppo filo-Club Med: ovvero, in fondo, un latino difensore delle cicale del debito, dimenticando quanto la Germania abbia usufruito della politica monetaria della Bce e di quanto ancora oggi le sue aziende stiano succhiando a costo zero dalle casse dell’Eurotower attraverso il programma di acquisto di bond corporate all’interno proprio del tanto vituperato Qe. Idem per le aziende francesi, senza contare l’abitudine transalpina di eccedere i limiti di deficit senza che nessuno, a Bruxelles come a Francoforte, abbia poi troppo da ridire al riguardo. Figli e figliastri, si sa.

Una cosa è certa: de Guindos sarebbe la vittima sacrificale perfetta. Da un lato metterebbe a tacere le critiche di chi, vicino o interno ai Paesi del Sud Europa, volesse attaccare i Paesi del Nord e l’asse renano rispetto a possibili blindature della politica Bce, essendo il vice-presidente appunto uno spagnolo e, dall’altro, garantirebbe a Berlino e Parigi un capro espiatorio perfetto in caso di necessità, visto che de Guindos certamente non perseguirebbe una politica del rigore in seno al board e potrebbe essere tacciato di più o meno latente “boicottaggio” della politica della Bce, trascinando su di sé critiche e attenzione della stampa e dei Parlamenti nazionali, soprattutto quelli nordici e intransigenti. E questo, meglio essere molto onesti e pragmatici, sarebbe davvero utile per il nucleo forte dell’Europa che verrà, quella sotto costruzione franco-tedesca e a cui le istituzioni comunitarie, Commissione in testa, stanno uniformandosi senza colpo ferire, né proferire verbo: con il Qe in scadenza e tutto ciò che ne consegue – e di cui parliamo da mesi – appare infatti una manna poter contare su qualcuno che incarni i mali economici dell’eurozona, quantomeno di facciata e rispetto a stereotipi duri a morire, soprattutto a nord del Reno.

Anche perché, a oggi, nessuno in tutta onestà sa non solo quale sarà la politica della Bce post-Draghi, ma nemmeno quale sarà, con certezza, il futuro della stessa eurozona. Al netto di variabili istituzionali e istituzionalizzate come il Brexit e il suo ricasco non solo sul bilancio interno e sugli squilibri finanziari, ma, soprattutto, sulla catena di controparte dei derivati che legano la City all’Europa continentale, occorre infatti capire quale sarà il destino globale dell’orizzonte finanziario: quando scoppierà in pieno la nuova ondata di crisi? Quanto durerà e con quali conseguenze sulla tenuta dell’eurozona e della moneta unica? Davvero il Qe terminerà a settembre o, da qui all’estate, il botto si sarà fatto sentire e le rotative di Francoforte torneranno a stampare a forza quattro, senza che anche la Bundesbank abbia nulla da ridire? E l’euro, dove sarà finito rispetto al dollaro da qui alla fine statutaria del programma di espansione monetaria, con i suoi risvolti primari sulla profittabilità dell’export europeo, al netto dell’altro export, quello cinese di deflazione in cambio di impulso creditizio globale?

Domande cui oggi, nessuno, può dare una risposta, stanti le condizioni di mercato e la politica in pieno guado transitorio della Fed dopo il cambio al vertice: inoltre, se qui dobbiamo fare i conti con istituzioni Ue totalmente succubi ai desiderata di Francia e Germania, Oltreoceano abbiamo una Banca centrale costretta a fare i conti con una variabile impazzita come la Casa Bianca e il suo pittoresco inquilino, giullare il cui mandato non ufficiale è proprio quello di far detonare – prendendosi in questo modo la colpa in via ufficiale – la nuova ondata di crisi, creata in realtà da almeno sette anni di indebitamento allegro.

Volete la riprova? Eccola in questi grafici, i quali ci mostrano plasticamente come dallo scorso dicembre le aziende quotate sullo Standard&Poor’s 500 abbiano annunciato buyback azionari per un controvalore di 171 miliardi di dollari e gli annunci di riacquisto di proprie azioni per 67 miliardi di dollari da inizio anno a oggi rappresentano un +22% rispetto allo stesso periodo del 2017. Di più, gli annunci totali per 171 miliardi rappresentano il massimo storico per questo periodo iniziale dell’anno, più del doppio della media dei precedenti 10 anni, ferma a 77 miliardi. Per capirci, la scorsa settimana la sola Cisco Systems ha annunciato l’autorizzazione aziendale ad aumentare i buybacks per altri 25 miliardi di dollari e l’intenzione di riacquistare la sua intera autorizzazione da 31 miliardi di dollari nei prossimi 6-8 trimestri: parliamo di circa il 15% della sua attuale capitalizzazione di mercato.

E, come vi dico da sempre e come ci mostra il terzo grafico, i buybacks non solo sono stati e sono parte sostanziale e integrante del rally azionario pluriennale e interrottosi solo la scorsa settimana (garantendosi, con i soldi ottenuti dalle Banche centrali attraverso emissioni obbligazionarie allegre, alte valutazioni dei titoli, abbassamento del flottante e, soprattutto, bonus e dividendi), ma, soprattutto, sono appunto figli legittimi del debito corporate – senza contare quello sovrano – cresciuto a dismisura dal 2011 in poi. È in questo contesto generale che la Bce dovrà scegliere il suo vice e che oggi l’Eurogruppo sarà chiamato a formulare la sua preferenza: al netto del processo barocco che alla fine porterà alla nomina, il nome che verrà pronunciato oggi a Bruxelles ci dirà molto del futuro economico e finanziario – e, quindi, politico – che attende l’eurozona. Ovvero, tutti noi.

Strano che un argomento simile non abbia trovato spazio nei dibattiti illuminati che stanno caratterizzando la campagna elettorale italiana…





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