SPY FINANZA/ Lega-M5s, la guerra che fa gola alla speculazione (e all’Europa)
Tra Lega e Movimento 5 Stelle sembra essere in corso uno scontro il cui conto rischia di essere pagato da tutto il Paese nel corso di questa estate, spiega MAURO BOTTARELLI

Non sono un esperto di previdenza, anzi. Ammetto che, forse perché conscio che in pensione non ci andrò mai e dovrò arrangiarmi, non è materia che sia mai stata in cima alle mie preoccupazioni o ai miei interessi. È un mio limite, ma su queste pagine scrivono il fior fiore degli esperti in materia, quindi non vi sono certo mancati negli anni spunti e riflessioni interessanti, cui io non avrei proprio nulla da aggiungere. In compenso, ho una sorta di radar per le strategie. Soprattutto, il concetto di guerra per procura. E quella che Lega e 5 Stelle stanno combattendo utilizzando come proxy l’Inps e in particolare il suo presidente, Tito Boeri, lo è in piena regola.
Da due giorni Matteo Salvini, l’unico ministro degli Interni che discetta di qualsiasi materia, quasi a voler imporre un suo interim globale sull’azione di governo (e il quasi è ironico), sta letteralmente cannoneggiando Tito Boeri via Twitter, utilizzando anche un linguaggio ampiamente allusivo e di minaccia che certamente non fa onore a un rappresentante delle istituzioni. In parole povere, il numero uno del Viminale ha detto a Boeri che i suoi giorni a capo dell’ente previdenziale sono numerati. E non partono certo da una cifra esorbitante. La colpa del giubilato è quella di aver detto che il nostro Paese ha bisogno di immigrati per mantenere stabile e solvibile il sistema pensionistico, assunto rafforzato oggi dalla conferma che gli immigrati farebbero i mitologici lavori che gli italiani non vogliono fare più (forse perché fino a una quindicina di anni fa, soltanto l’idea di essere pagato 3 euro l’ora e lavorare senza ferie, malattia e contributi non era nemmeno contemplabile in questo Paese, per disgraziato e indebitato che fosse).
Una disputa vecchia e mai risolta, se non con sterili guerre di cifre che hanno assunto nel tempo il sapore sempre più acre del contrasto meramente ideologico. E di bassa lega. Ovviamente, il ministro dell’Interno ha fatto prevalere nelle sue risposte social la seconda veste di segretario leghista, sparando a palle incatenate verso quello che viene sarcasticamente appellato come “fenomeno” e poi avanzando la sua previsione per il futuro dell’Inps. Ovvero, un bel cambio al vertice. Il problema, al di là del poco edificante quadretto istituzionale, è il fatto che nella disputa si sia infilato giocoforza anche l’altro vice-premier, il capo dei 5 Stelle e ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, il quale ha invece avuto parole dolci per Tito Boeri, sottolineando come lavoreranno insieme e in armonia su temi con il taglio dei vitalizi e delle pensioni d’oro, un qualcosa che vede d’accordo anche l’altro arci-nemico leghista in ambito economico, l’ex Commissario alla spending review, Carlo Cottarelli.
Ma se l’Inps rappresenta un proxy, appunto, nella guerra di equilibri politici ed elettoralistici fra Lega e 5 Stelle, sul cosiddetto “Decreto dignità”, sono cadute anche le maschere e lo scontro si è fatto aperto, almeno in casa grillina. Matteo Salvini, infatti, rispondendo alle domande dei cronisti si è detto contento del provvedimento, anticipando però che il Parlamento dovrà cercare di migliorarlo. Immediata la replica del ministro del Lavoro, a detta del quale se le eventuali modifiche andranno a toccare punti cardine come lo stop alla pubblicità sul gioco d’azzardo o la lotta alla precarietà, in Aula il Movimento si porrà come argine, di fatto ricordando all’esorbitante alleato i numeri parlamentari scaturiti dal voto del 4 marzo.
La questione è più seria di quanto sembri, poiché sottende due criticità che lasciare aperte nel vuoto politico di agosto potrebbe rappresentare il proverbiale pezzo di carne sanguinante nella vasca dei pescecani. Primo, al netto del pieno di voti che la Lega ha fatto anche fra i lavoratori del terziario e della cosiddetta “classe operaia”, innegabile dai numeri, il bacino di riferimento rimane comunque, almeno per larga parte della nomenklatura leghista sul territorio, quello imprenditoriale, non fosse altro perché sono molti in quel comparto gli elettori delusi da Forza Italia che hanno scelto il Carroccio, in Brianza come in Veneto. Non è un caso che ai tempi dell’alleanza fra azzurri e leghisti in era Berlusconi-Bossi, l’uomo più importante fosse il cosiddetto “pontiere” fra i due mondi più che fra i due movimenti, ovvero Aldo Brancher. Oggi quell’intermediazione non c’è, ma esiste comunque una spaccatura fra l’ala movimentista-sovranista e quella istituzionale-dialogante che vede in Giancarlo Giorgetti la sua figura di riferimento e il suo garante da eccessi di derive estremistiche: bene, la fibrillazione in quei settori e in certi esponenti leghisti in queste ore è chiara. Lampante. E decisamente allarmata.
Troppe, infatti, le misure contenute nel “Decreto dignità” che il ceto imprenditoriale del Nord vede come ampiamente penalizzanti, tanto da portare a una presa di posizione criticamente netta e ufficiale anche quel consesso notoriamente dormiente chiamato Confindustria, sempre più residuale proprio nelle aree maggiormente produttive (in questo caso, a Marchionne va fatto un monumento, non fosse altro per aver messo in luce il carattere meramente relazionale e da difesa della rendita di posizione di viale dell’Astronomia, non a caso contraltare perfetto delle paludate ricette della Cgil camussiana).
Seconda criticità, strettamente connessa a questa prima e al suo carattere di tutela interessata della propria base elettorale di riferimento, è quella che vede il ministro dell’Economia sempre più come corpo estraneo a questo governo, dovendo passare intere giornate a bocciare ora un provvedimento-bandiera della Lega e poi uno dei 5 Stelle. La ragione? Sempre la stessa, i vincoli di bilancio e la palese mancanza di copertura finanziaria, salvo quella garantita da introiti meramente prospettici come quelli che farebbero riferimento alla “Pace fiscale” o da ricette suicide come l’operare a deficit, sfidando apertamente Bruxelles.
Il ministro Tria, al riguardo, durante la sua audizione di martedì è stato chiaro: la flat tax si farà solo se ci saranno le condizioni di stabilità di bilancio necessarie. Tradotto, scordatevela. Non a caso, nel lungo discorso tenuto domenica a Pontida, Matteo Salvini non ha nominato quel provvedimento nemmeno una volta. Unite questo allo spostamento a sinistra delle politiche di governo operato, di fatto, da Di Maio con il “Decreto dignità” e capite che i malumori fra gli imprenditori del Nord sono destinati a crescere di magnitudo, soprattutto quando l’allarmistica priorità dei migranti avrà perso di intensità (di fatto, passata l’estate, l’emergenza sbarchi calerà per ovvie ragioni di intensità) e, temporalmente contemporanea, si aprirà alle Camere la stagione delle scelte economiche reali, ovvero le clausole di salvaguardia da disinnescare per evitare l’aumento Iva nel 2019, la manovrina richiesta dall’Europa e il Def 2019. E se lo stesso Tria ha negato l’esigenza di una manovra correttiva in autunno, ha anche sottolineato come il quadro economico macro possa peggiorare, stante le tensioni globali legate in principal modo alla guerra commerciale, senza scordare l’approssimarsi della fine del Qe, decisamente uno snodo per il nostro Paese e le sue spese per il servizio del debito.
Insomma, a oggi quei 10 miliardi circa di correzione, resa necessaria anche dalla revisione al ribasso del Pil, non sarebbero necessari, ma – in perfetto stile Bce o Fed -, il ministro lascia intendere che a causa di dinamiche esogene e internazionali (quindi non riconducibili formalmente all’azione di governo o alla sua percezione nei mercati), il quadro potrebbe mutare. Al ribasso. Ora, esiste una prospettiva peggiore di avvicinarsi al periodo degli attacchi speculativi per antonomasia? E per quanto al Mef possano approntare task-force a rotazione, al fine di poter intervenire anche in pieno agosto, la questione è strutturale: quanto può intervenire il Ministero in caso di attacco in grande stile, ad esempio contro le nostre banche? Poco o nulla, a fronte di volumi che permettono oltretutto di generare tsunami pur operando su scambi ridotti. Divieto di short-selling emergenziale come nel 2011? Esistono le opzioni e Mps ne sa qualcosa.
Certo, c’è la Bce. Ma ricordiamoci che è la stessa Bce che non più tardi della scorsa settimana è stata abbastanza ultimativa nel dire al governo di non pensare nemmeno a interventi sulle pensioni, soprattutto a modifiche o cancellazioni della Legge Fornero: al netto della campagna anti-Boeri di Salvini e della sua dichiarazione di guerra proprio all’Eurotower (“Che piaccia o meno, smonteremo la Fornero”, pensate che Mario Draghi, parlandoci fuori dai denti, non ci farà ballare qualche giorno, tanto per vedere e farci vedere l’effetto che fa? E sapete cosa vuol dire arrivare all’appuntamento con la riapertura delle Camere e l’approdo delle misure economiche in Aula con un Paese fiaccato da un attacco speculativo?
Lo ripeto, non sono un esperto di pensioni. Ma non ci vuole un professore per capire che, prima ancora che sulla pelle dei lavoratori e dei pensionati, questa battaglia tutta elettoralistica rischia di essere sulla pelle del Paese. Con ciò che consegue da tutto questo, visto che ne abbiamo recenti ricordi legati all’estate del 2011 e alla famosa lettera della Bce di cui il governo e il duo litigante Tremonti-Berlusconi parve volersi fare beffe, visto che i ristoranti e gli alberghi erano pieni e la guerra intestina all’esecutivo era giunta a picchi di irresponsabilità senza precedenti.
E attenzione, perché adesso le condizioni generali di mercato e dell’economia reale sono molto, molto peggiori. Fermatevi. Prima che lo stop ce lo intimino i mercati, a modo loro.
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