Il regalo dell’amico americano, tanto per citare il capolavoro di Wim Wenders, è arrivato. Moody’s ha deciso di rinviare la propria decisione sul rating italiano a fine settembre, dopo la nota di aggiornamento del Def. Insomma, un altro mese di respiro e calci al barattolo, nella speranza che succeda qualcosa in grado di materializzare le promesse elettorali ed evitare il redde rationem con la realtà. E qualcosa potrebbe succedere. Certo, la manina d’Oltreoceano deve restare formalmente invisibile, quindi la nota di Moody’s critica in anticipo il “Decreto dignità”, sottolineando come non aumenterà i contratti stabili e, in contemporanea, il Wall Street Journal pubblicava l’ennesimo «allarme Italia, un pericolo per l’euro», ritrita versione del crucifige relativamente a nostro debito insostenibile e alla mancanza di spirito riformista nella gestione dei conti pubblici. Insomma, cerchiobottismo perfetto, ma il risultato che conta è stato ottenuto: Moody’s non pianterà il suo chiodo nella bara di questo governo prima della fine di settembre, magari anche gli inizi di ottobre. Tocca preparare il terreno per il giudizio di Standard&Poor’s atteso per fine agosto, ma, come si suol dire, un problema alla volta.
Perché da Oltreoceano, come anticipato, potrebbe arrivare anche l’insperato casus belli in grado di mandare in soffitta tutte le polemiche, dalla gestione dilettantesca del caso Autostrade ai capitoli più scottanti delle coperture finanziarie relative ai punti fondanti del contratto di governo, dalla flat tax al reddito di cittadinanza fino alla rottamazione della Legge Fornero. L’amico americano, leggi Donald Trump, lunedì era negli Hamptons, il mare chic dei miliardari newyorchesi. E non per svago, ma per una convention con facoltosi donatori del Partito Repubblicano, i quali per cifre variabili ma con molti zeri hanno potuto comprarsi un’oretta di tempo del Presidente per chiacchierare e farsi una bella fotografia da incorniciare e piazzare nello studio di casa o in ufficio. E The Donald non ha tradito le attese, ha reso quelle “donazioni” un investimento, perché ha parlato come al solito senza peli sulla lingua. Di Cina, di dazi, di guerra commerciale. Ma, soprattutto, di Fed.
E verso Jerome Powell, il governatore della Banca centrale, non ha avuto parole tenere. Anzi. Stando ai resoconti di Bloomberg e Reuters filtrati attraverso fonti interne all’incontro, il presidente avrebbe espresso tutta la sua contrarietà verso la politica dei tassi della Federal Reserve, auspicando – un eufemismo, ovviamente – che il suo numero uno si trasformasse in «un presidente da cheap-money, ruolo per cui è stato eletto». Ovvero, basta contrazione monetaria e aumento del costo del denaro, facciamo come i cinesi: stimoliamo il credito. Di per sé, un segnale importante, ancorché formalmente espresso in un contesto privato e non ufficiale, perché se esiste un tabù nella politica americana, questo è l’indipendenza della Fed da Casa Bianca e Congresso. Ma è il timing il dato più importante. Perché Trump non ha proferito quelle parole in un tiepido aprile e o in un gelido gennaio, bensì il 20 agosto, ovvero all’inizio della settimana che ci porterà al simposio annuale di Jackson Hole, la riunione dei Banchieri centrali organizzata appunto dalla Fed e che si terrà dopodomani e sabato nell’amena località del Wyoming.
E proprio venerdì sarà Jerome Powell a parlare al mondo, forte di quel 4,1% di crescita del Pil del secondo trimestre che dovrebbe veramente vederlo salire in cattedra per insegnare a tutti come si conduce una politica monetaria che porti a simili risultati economici. Ora, attendersi un ribaltamento della situazione solo per la “delusione” di Trump è assurdo e impensabile, un cambio di narrativa appare decisamente infondato, ma la formale guerra commerciale in atto con la Cina e la situazione turca garantiranno al numero uno della Fed sufficienti argomenti per inserire nello storytelling ufficiale ulteriori elementi di criticità e di mitologici “rischi al ribasso”, ovviamente derivanti dalla situazione internazionale, visto che in America non si è mai stati bene come oggi, economicamente parlando. Quindi, leviamoci dalla testa annunci plateali di stop al rialzo dei tassi o, addirittura, di ritorno a un minimo sindacale di politica espansiva (di fatto, ancora in atto, perché stando ai dati macro che ci spacciano, i tassi ufficiali in Usa dovrebbero essere già oggi sopra al 3%).
Ma attenzione ai segnali, ai messaggi in codice, anche alle virgole e ai puntini di sospensione nel discorso. Soprattutto, a silenzi e omissioni. E sapete perché? Perché normalmente i discorsi dei banchieri centrali a Jackson Hole sono anticipati da attese febbrili sui mercati, da veri e propri tremori: oggi, invece, nessuno ne parla. Calma piatta, totale. Certo, il mercato turco questa settimana è aperto alle contrattazioni solo per due giorni di trading, causa festività, ma lunedì la lira ha sfondato addirittura quota 8.0 nel cambio con il dollaro, dopo che è abortito anche l’ultimo tentativo di ricomporre la vicenda dei pastore evangelico statunitense detenuto ai domiciliari ad Ankara. E sempre lunedì, nonostante qualche bel miliardone di liquidità immessa nel sistema dalla Banca centrale, la Cina ha dovuto far entrare in azione il National Team, ovvero il consorzio di banche statali, per evitare schianti a Shanghai e per far virare in positivo i futures a Wall Street. Nei mercati emergenti, la situazione peggiora di giorno in giorno. Ma temo che questo sia il progetto, di cui la Turchia è stato solo il detonatore: saranno Asia e America Latina a trasformare l’incendio doloso in un rogo devastante. Dovessi puntare un euro sull’epicentro, direi Brasile.
E signori, per quanto sia paradossale e poco morale farlo, occorre sperare che la situazione precipiti a tal punto da “obbligare” la Banche centrali a salvare il mondo un’altra volta, Italia compresa. Stiamo danzando nel cratere di un vulcano e nessuno sa quando ci sarà l’eruzione e in quale direzione andrà la lava: bene, Jackson Hole non può evitare l’eruzione, ma può, se gioca bene le sue carte, indirizzare il flusso della lava dove fa più comodo. O, quantomeno, dove fa meno male. Qualcuno, però, dovrà pagare un prezzo. E non è escluso che sia in parte e collateralmente l’Europa (ad esempio attraverso l’esposizione bancaria e il collasso dell’interscambio economico-commerciale con la Turchia, se si arrivasse davvero alle estreme conseguenze), visto l’atteggiamento tenuto finora da Donald Trump verso il Vecchio Continente e l’avversione del Presidente Usa verso un dollaro troppo forte che penalizzi l’export statunitense, più di quanto non stiano già facendo le politiche di dazi e sanzioni (anche un bambino delle elementari capisce che conciliare politica protezionistica e dollaro forte equivale a uscire di casa con l’ombrello e il cappotto a Ferragosto).
Perché attenzione, al netto del casinò di Wall Street da preservare, a novembre si vota per le elezioni di mid-term e la settimana prima delle urne, è prevista la pubblicazione del dato sul Pil del terzo trimestre, di fatto già da ora una delusione annunciata rispetto a quello del secondo con il suo +4,1%, tutto frutto dell’anticipazione del boom proprio delle esportazioni, in vista dell’entrata in vigore del regime punitivo di dazi attesa a giorni che ha spinto il mondo a comprare di tutto e su volumi oltre il normale prima che aumentino i prezzi. Insomma, quel dato, a meno di sorprese che solo una guerra con il suo moltiplicatore bellico del Pil o una “calibrata” politica della Fed possono ribaltare (in tal senso, occhio all’abbandono ufficiale di Total dagli investimenti in Iran, possibile proxy di una crisi che l’intelligence francese ritiene reale e alle porte) rischia di svelare agli Usa che il Re della guerra commerciale è nudo e che le sanzioni volute dalla Casa Bianca sono, per ora, sostanzialmente un boomerang. Ma ricordatevi che siamo dentro Matrix, quindi quella che in punta di realismo e dati macro appare una politica economica e commerciale autolesionista, altro non è che un altro tassello nel mosaico del casus belli in preparazione per arrivare al grande progetto finale, ovvero Qe globale e pressoché perenne.
Qualcuno, però, ora deve essere sacrificato sull’altare di quel bene superiore e supremo. Non c’è più tempo di rimandare, occorre un vitello da scannare, possibilmente nella maniera più plateale possibile. Un po’ come la Turchia. Anzi, di più. Molto di più. Un po’ come il Brasile, appunto, dove la situazione ormai è innescata come una bomba a orologeria. Ma di questo, parleremo più nel dettaglio domani. Per ora segnatevi la data, venerdì 24 agosto, Jackson Hole, Wyoming, Usa. Per quanto, ufficialmente, Jerome Powell racconterà al mondo quanto tutto sia fantastico, nel suo discorso sarà contenuta almeno una formula magica che solo chi sta nella stanza dei bottoni può capire al volo. Per noi comuni mortali ci vorranno giorni o settimane. Forse mesi. Ma pochi, ve lo assicuro. Prima di addobbare l’albero di Natale.