Diamo per scontato che Luigi Di Maio e Matteo Salvini abbiano visto e applaudito “Il mercante di Venezia” di William Shakespeare, magari nella mitica versione con l’indimenticabile Al Pacino che interpreta il protagonista Shylock. Ebbene, ricorderanno che anche in quel caso c’era in ballo un contratto. Che attribuiva al creditore, senza margini di dubbio, l’orrendo pegno del cuore del debitore in caso di mancato pagamento, alla scadenza, del debito contratto. Già: ma l’astutissima avvocatessa della difesa che cosa notò, con acuta vista giuridica? Che il contratto non aveva previsto che, oltre al cuore della vittima, il creditore non potesse che prelevarne anche il sangue da esso contenuto, che sarebbe stato inevitabilmente sparso per estrarre l’organo dal petto del malcapitato. E poiché dunque si ravvisò che l’adempimento del contratto sarebbe stato iniquo, comportando una conseguenza materiale rilevantissima e non contemplata nel testo, anche l’impegno principale pattuito nel documento venne meno. Il debitore fu salvo, Shylock scornato.
Ora, dopo aver ripetuto fino alla noia che le gesta del governo giallo-verde, pur rocambolesche, non possono dispiacere più di tanto, al confronto con l’inconcludenza iattante renziana e l’inesistenza gentiloniana, il rischio concreto che il contratto tra Cinquestelle e Lega evapori come il contratto di Shylock si vede a occhio nudo. Ma per ragioni oggettive, e non per il coro muto, rabbioso e impotente che il “giornalone unico”, come lo chiama Travaglio, innalza ogni giorno contro il Governo vedendosi per la prima volta tagliato fuori sul serio, con tutte le lobby sempre appoggiate, dalla stanza dei bottoni.
È questo il senso profondo dell’impasse di questi giorni sulla manovra economica. È evidente, come qualcuno ha scritto, che Di Maio e Salvini devono fare almeno qualche primo passo nelle direzioni promesse ai loro elettorati per ottenerne il voto durante la campagna elettorale: il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei Grillini; la flat-tax e il “superamento” della Fornero, terre promesse della Lega. Bene. Il reddito di cittadinanza è un’esigenza che sta nascendo un po’ ovunque, di fronte all’avanzata dei robot: perfino nella Francia di Macron. La flat tax prospera in 42 Paesi del mondo e certo in Italia non potrebbe far peggio di un fisco nauseante, indecoroso per pressione e modalità in un paese asserito civile. E l’ultima riforma delle pensioni ha instaurato il regime previdenziale ad oggi più severo d’Europa. Che bello sarebbe allora attuare il programma di governo!
Bellissimo, e Di Maio e Salvini l’hanno condiviso e concordato firmando il relativo contratto. Nel quale però si enunciavano gli obiettivi, ma si sorvolava sul piccole particolare indispensabile per conseguirli: quali soldi usare. Un po’ come Shylock, che s’era dimenticato di aggiungere che “sangue sarebbe stato versato”… A pieno regime, il reddito di cittadinanza costerebbe 50 miliardi, la flat-tax almeno all’inizio circa 40, la Fornero 25 all’anno. Numeri al lotto, per un paese con 2.300 miliardi di debito pubblico che ogni mese deve collocare sul mercato 400 miliardi di debito pubblico che ne costano già 4 di più, quest’anno, per i soli annunci dell’intenzione giallo-verde di voler finanziare la manovra portando il rapporto tra deficit e Pil dall’1,6% previsto oltre il 2%, annunci che hanno fatto salire lo spread…
Niente da fare: il rapporto deficit/Pil non si tocca, hanno stabilito il premier Conte con i ministri Tria (Economia) e Savona (rapporti con l’Europa) discutendone con Di Maio e Salvini. Ma se non “prendiamo i soldi” allentando la disciplina europea, dove li prenderemo? E qui casca l’asino, direbbe Totò. Perché in realtà non sappiamo dove prenderli. Conte ha rassicurato: “Ci siamo soffermati sull’analisi degli sprechi da tagliare ai fini della riqualificazione della spesa pubblica e sulle possibilità di un rilancio della crescita (…) e un quadro organico di tagli alle spese improduttive”. Ma sono, in salsa giallo-verde, le stesse solite chiacchiere ripetute dai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, tenutari di Palazzo Chigi per complessivi sei anni, durante i quali il debito pubblico è aumentato – tanto bravi poi non erano, quei teorici dell’austerità – di 50 miliardi l’anno. La famosa “spending review” affidata a Roberto Perotti e poi a Carlo Cottarelli e infine a Yoram Gutgeld – israeliano ex McKinsey spedito a Tel Aviv per ristrutturare i conti dell’esercito, mica pizze e fichi – non ha mai prodotto granché. Briciole, semmai: il resto è ingurgitato dal vortice della burocrazia parcellizzata e decentrata, un mostro dalle mille bocche che nessuno è riuscito a tappare. Ci potrà mai riuscire il governo del cambiamento? “Ma mi faccia il piacere!”, esclamerebbe sempre Totò.
Sotto questa luce si spiegano anche le micro-scaramucce – inutilmente enfatizzate dai “giornaloni” -tra Salvini che parla in un sostanziale mega-condono per trovare i soldi e Di Maio che rettifica: “pace fiscale sì, condono mai”, come dire: “Zuppa sì, pan spugnato no!”. Il contratto fissa gli obiettivi, non monta gli oculari, per guardarli da vicino. E il binocolo, usato così, fa vedere quegli obiettivi ancora più lontani di quanto non siano. Finirà così: finirà che il Governo ridurrà al minimo il “conto” delle tre misure, pur di poter dire di aver “iniziato il cammino”. Una decina di miliardi. Come fare il giro del mondo in low-cost partendo con cento euro in tasca: buon viaggio!
Qualcuno applaudirà, più di qualche altro fischierà, ma si andrà avanti, sul fronte interno. Sarà sul fronte europeo che i nostri conti saranno contestati in quanto troppo pieni di misure “una tantum” (ogni condono lo è!). E dunque c’avanzeremo ancora di qualche paso, ma belli baldanzosi, lungo la strada che porta alla Grecia. Sperando che ci resti tempo per fermarci: dipende dai mercati.
Peccato, perché molte delle cose che i giallo-verdi, con buona pace di Mario Monti e di Matteo Renzi, sono belle a vedersi. Ma difficili, maledettamente difficili a farsi.