Avete letto il cosiddetto “Piano Savona” per la riforma della governance – anzi, scusate, della politeia, come umilmente e sobriamente lui stessa l’ha definita, un po’ stizzito – dell’Unione europea? Fatelo, è un vero spasso. So che su queste pagine arrivano addirittura consigli dalla Cina riguardo all’importanza di quel piano per l’azione di governo (a prescindere che sia più o meno condivisibile il contenuto, viene premesso, un qualcosa di veramente originale ed estroso), ma sapete com’è, tendo a ragionare con la mia testa e a leggere le cose prima di dare un giudizio. Assolto questo compito, mi limito a dire che l’ambasciatore Massari merita una medaglia e il Cavalierato del lavoro per non aver inoltrato quell’ammasso di follie fiscali a Jean-Claude Juncker, altro che la sua rimozione dalla rappresentanza italiana permanente a Bruxelles, come pare avrebbe chiesto un inviperito ministro Savona.
Come se con l’Ue non avessimo già abbastanza guai, ci manca solo la brillante idea dell’economista di riferimento dei sovranisti di spalmare il debito su circa 300 anni e ripagarlo ponendo a garanzia le entrate fiscali (da quantificarsi a capocchia, visto che addirittura si parla di “deficit dinamico” in base al Pil nominale) e il patrimonio pubblico. Dicendola brutalmente, vuole indebitarsi, rimettersi in pari a babbo morto in base a quanto lo Stato riuscirà a introitare e, come suprema garanzia, vuole di fatto ipotecare il Colosseo e il Duomo, dandoli in pegno alla Bce pur di sforare sul deficit! Signori, poi ci lamentiamo che in Europa vogliono metterci sotto tutela i conti? Vi prego, leggete con i vostri occhi il “Piano Savona”, è davvero istruttivo. Quantomeno per capire in cosa si tramutano, nel concreto, certe scelte di pancia in cabina elettorale.
Chiusa parentesi italiana, veniamo alle cose serie. Anzi, a dire il vero un po’ di Italia resta comunque. Perché sempre dal geniale fronte sovranista arriva (sempre più mitigato con il passare dei giorni, a dire il vero) l’imperativo anche a livello geofinanziario: seguire gli Stati Uniti, faro e riferimento nella lotta contro l’ordoliberismo tedesco e il suo maledetto surplus commerciale che ci uccide. Di più, l’America è vista come baluardo di crescita sostenibile e sostenuta in un mondo di indebitamento come modello strutturale. Ora, già far coincidere le ricette stile Totò che vende la fontana di Trevi del ministro Savona con un modello non improntato a deficit è opera improba, ma riuscire a dipingere gli Usa, patria del credito al consumo che trasforma milioni di cittadini in schiavi strutturali del debito (vedi i mutui scolastici o acquisto a rate di automobili), in un paradiso della crescita sostenibile appare davvero lunare. Ma di questi tempi, nulla più stupisce. Anche perché, purtroppo, la corda è stata tirata davvero troppo e il suo grado di consunzione diviene ogni giorno più palese.
E, paradossalmente, a svelarne gli altarini è proprio quella che a detta della narrativa mainstream sarebbe invece la cartina di tornasole del successo della ricetta trumpiana: i sempre nuovi record di Wall Street. Volete vederli i record veri, quelli di cui sovranisti ma anche media pavloviani non vi parlano? Non solo (come si vede nel grafico) il successo dei corsi azionari è sempre più legato alla pratica incestuosa dei buybacks, il riacquisto di proprie azioni da parte di grandi aziende, finanziato oltretutto con il cuscinetto di capitale garantito da anni di acquisti obbligazionari corporate della Fed (e fino a oggi della Bce, visto che le sussidiarie estere delle corporation Usa ne beneficiano, così come quelle svizzere), ma qualcosa di peggio. Primo, il controvalore stimato dei buybacks per quest’anno – parliamo di quelli già autorizzati dagli enti di controllo del mercato – è pari alla sobria cifra di un triliardo di dollari, un aumento del 46% su base annua! Il motivo? Semplice. E vi assicuro che non ha nulla a che fare con la millantata crescita sana e sostenibile dell’economia Usa.
Le ragioni sono sostanzialmente due, ovvero il rimpatrio di un ammontare enorme di denaro depositato finora all’estero e che con la riforma fiscale di Trump – quello che doveva pensare alla povera gente, alla Main Street proletarizzata dalla crisi del 2008 e combattere le élites – ha ritrovato la via di casa, in gran parte proprio per riacquistare propri titoli azionari. E, strettamente legato, la profittabilità corporate dovuta proprio al regime fiscale, visto che a fronte di revenues dell’indice Standard&Poor’s 500 cresciute dell’11% durante il primo semestre 2018 su base annua, gli utili per azione nello stesso periodo hanno vissuto un balzo del 25%, grazie proprio al regime di tassazione ultra-agevolato per le grandi aziende introdotto da Donald Trump. Risultato finale? il cash-flow legato allo Standard&Poor’s 500 e frutto di queste operazioni è cresciuto del 35% a quota 917 miliardi di dollari nei primi sei mesi di quest’anno.
Eccolo il make America great again, di fatto make Wall Street great again, alla faccia del sovranismo e del popolo! Anzi, con i loro entusiastici voto e sostegno! Un capolavoro, non c’è che dire. Ma si sa, il popolo lo ammansisci facilmente. Ad esempio, con la balla colossale della guerra commerciale contro quei concorrenti sleali dei cinesi (i quali, però, garantiscono impulso creditizio e detenzione di Treasuries, quindi meglio andarci cauti), la cui (in)utilità reale l’ho spiegata chiaramente nel mio articolo di ieri. E sapete qual è il problema sostanziale?
Ce lo dicono questi altri due grafici, cuore della seconda criticità legata al carattere di cartina di tornasole della Borsa rispetto al reale stato dell’arte economico. Il primo ci dice chiaramente che, al netto di tutti i magheggi da liquidità centralizzata e finanza creativa del mondo, il picco è ormai stato raggiunto a livello di distorsione dei multipli di utile per azione, quindi o la Fed la smette di alzare i tassi e fa in modo che torni a circolare un diluvio di liquidità per oliare il sistema oppure Wall Street grippa per mancanza di “balsamo” monetario a costo zero. Il secondo, paradossalmente, è anche peggio, perché a meno di due mesi dalle elezioni di mid-term, vediamo che la dinamica – anch’essa pavloviana – di personalizzazione politica dei successi borsistici di Donald Trump comincia a perdere di vigore, al netto del decouple in atto fra livello di consenso e performance dello Standard&Poor’s 500.
Ora, facciamoci una domanda: se quelle due linee di trend dovessero tornare convergenti, ma lo facessero al ribasso, ovvero l’S&P’s 500 subisse una correzione dei corsi tale da andare a “riprendere” l’indice di gradimento del Presidente che ne rivendica il successo stellare, cosa accadrebbe a livello globale? E attenzione, perché dal 5 ottobre entriamo nella stagione del cosiddetto blackout, ovvero l’impossibilità temporanea per le grandi aziende di operare buybacks, quindi gli indici vedranno venire meno il loro contrappunto più importante. Attenzione, perché sarà un momento di fondamentale importanza. Paradossalmente, infatti, se ci saranno correzioni al ribasso, ci sarà da festeggiare. Perché significa che la clientela retail, il cosiddetto parco buoi, non ha acquistato in massa ciò che hedge funds e banche d’investimento stanno scaricando con valutazioni massime, avendo subodorato l’aria e volendo evitare di restare con la patata bollente fra le mani. Se invece sarà business as usual a Wall Street, ovvero senza scossoni, significa che il trasferimento del rischio ai gonzi è riuscito anche questa volta, almeno in massima parte.
Ma attenzione ulteriore, perché se anche il blackout non porterà con sé cali degli indici, potrebbe portare – proprio per l’assenza degli acquisti assicurati e per grossi ammontare dai buybacks delle grandi aziende – un aumento della volatilità. E lì, allora, si capirà chi sta bluffando. Ma con le carte già distribuite e la mano di gioco iniziata. Seguiamo il modello di crescita americano, ci troveremo sicuramente bene. E poi ci comprano i Btp.