Niente di nuovo ieri sul fronte occidentale. Che non è quello bellico del famoso romanzo di Erich Maria Remarque, bensì il fronte fiscale di via XX Settembre a Roma da cui partono in forma di aliquote e balzelli gli attacchi ai redditi e al benessere dei doppiamente impoveriti, dalla crisi e dallo Stato, cittadini italiani.
Due notizie, in sintesi, che non aggiungono nulla di nuovo a quanto già sapevamo o potevamo immaginare. Notizia numero uno: secondo via XX Settembre il gettito fiscale dei primi quattro mesi dell’anno è risultato inferiore alle previsioni di quasi 3,5 miliardi, il 2,9% in meno rispetto alla cifra inclusa nelle previsioni del Def, il Documento di economia e finanza, presentato solo sette settimane fa. «A far mancare l’obiettivo sono state le entrate del Bilancio dello Stato (-3.140 milioni) e in particolare il gettito Iva che riflette valori di natura congiunturale».
Forse il nostro ministero del Tesoro non sapeva in aprile, quando ha fatto la previsione, che c’è la recessione economica e che di solito quando c’è la recessione i redditi calano, le famiglie non hanno soldi da spendere e quindi anche il gettito delle imposte sui consumi cala, nonostante si cerchi di evitarlo alzando le aliquote? Ma siccome ora lo sa ci auguriamo che non voglia ricercarne una più ampia e drammatica conferma in autunno attraverso il mai decalendarizzato secondo (e doppio) aumento dell’Iva.
Seconda notizia: secondo la Corte di Conti, che ha presentato ieri al Parlamento il suo Rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica, l’eccessiva pressione fiscalerischia di generare impulsi recessivi sull’economia reale e di creare un pericolo di avvitamento dell’economia. Il lettore de Il Sussidiario ha mai forse letto in precedenza avvertimenti di questi tipo su queste colonne? Per la Corte il rischio deve essere monitorato al fine di disinnescare il circolo vizioso in cui si potrebbe rimanere intrappolati. Il lettore de Il Sussidiario conosce metodi per disinnescare il rischio, diversi dal ridurre la spesa pubblica e simmetricamente le tasse? Se li conosce è pregato di scrivere con urgenza al governo.
Per la Corte, inoltre, “gli interventi correttivi decisi nell’estate presentano la caratteristica evidente di concentrarsi sulle entrate, a cui è legato il reperimento di oltre due terzi delle maggiori risorse di bilancio. Nello scorso dicembre, poi, il Governo rafforzava le dimensioni dell’intervento correttivo, aggiungendo misure integrative di correzione e confermando il ricorso prevalente alla leva tributaria per l’intero orizzonte programmatico. La scelta di accentuare la manovra dal lato delle entrate pubbliche risponde, evidentemente, all’esigenza di assicurare il pareggio di bilancio già nel 2013 in un contesto reso più difficile dalla crisi finanziaria e dai rischi circa la sostenibilità del debito dei paesi europei più esposti. Nei fatti, l’aumento discrezionale della pressione fiscale contrasta la caduta del gettito provocata dalla perdita permanente di prodotto”.
In sintesi, poiché la recessione ha abbattuto gli imponibili, il governo ha alzato in maniera corrispondente le aliquote al fine di preservare il livello del gettito. È dunque palese come il gettito sia considerato indipendente dalle sottostanti variabili economiche. Una volta si diceva del salario come variabile indipendente, ora evidentemente il gettito fiscale ha preso il suo posto in questo ruolo. Possibile che le tasse possano considerarsi insensibili e impermeabili al ciclo economico? Al lettore normale può sembrare assurdo, ma in realtà non lo è. Per spiegarlo, e per capire il ruolo delle tasse, bisogna tuttavia partire dalla spesa pubblica.
Esiste una differenza fondamentale tra gli Stati e tutti gli altri attori economici. Le famiglie, le imprese e le istituzioni non profit programmano infatti e realizzano le loro spese sulla base dei redditi che riescono a conseguire attraverso le rispettive attività. Gli Stati al contrario prima decidono quanto spendere e poi quanto sottrarre ai cittadini attraverso le tasse per finanziare la spesa pubblica. Per i privati la spesa dipende dalle entrate, per gli Stati le entrate dipendono dalla spesa. La spesa pubblica è pertanto una variabile indipendente.
Questo è vero in particolar modo nell’Europa mediterranea e in Italia, dato che nel mondo anglosassone il cittadino contribuente è molto attento a impedire ai decisori politici di imporre tasse troppo elevate e nel mondo scandinavo i decisori politici sono molto attenti a fornire ai cittadini un’ampia gamma di servizi di qualità in cambio dell’elevato prelievo fiscale. In Italia la spesa pubblica è invece indipendente dalla quantità e dalla qualità dei servizi erogati. Lo abbiamo visto alcune settimane fa in relazione alla spesa sanitaria: le regioni italiane (tra cui la Lombardia) nelle quali la spesa pro capite, standardizzata per le caratteristiche demografiche, è più contenuta sono anche le stesse nelle quali la qualità dei servizi sanitari è maggiore.
D’altra parte la produzione pubblica italiana più efficiente era sino al 2008 quella della vecchia Alitalia, con un eccesso di costo per posto chilometro offerto sui suoi aerei solo del 6% rispetto alle media degli altri vettori europei. Ma la vecchia Alitalia, dovendo operare in mercati concorrenziali e recuperare i costi attraverso i ricavi e senza l’aiuto del contribuente è rapidamente fallita. Lo stesso accadrebbe in conseguenza per tutte le altre produzioni pubbliche italiane se fossero poste al vaglio della concorrenza sul mercato e se il contribuente-consumatore potesse scegliere per ogni servizio tra operatori alternativi.
Purtroppo la concorrenza non è stata ancora introdotta nel settore pubblico, pur essendo agevolmente realizzabile per almeno due terzi della sfera di attività dello Stato, quella relativa ai servizi a domanda individuale. Il contribuente è quindi obbligato a impiegare una quota crescente dei sui redditi, decrescenti a causa delle recessione, per finanziare in maniera coercitiva costi esorbitanti di servizi di qualità scadente che mai sceglierebbe di comperare se fosse libero di scegliere.
Una spesa pubblica indipendente dalla quantità e qualità dei servizi pubblici implica una corrispondente tassazione indipendente dai redditi prodotti dagli agenti economici. Infatti, se le aliquote fossero date, redditi decrescenti a causa della recessione produrrebbero razionalmente e condivisibilmente un gettito decrescente. Invece, poiché il livello del gettito ricercato dai governi è grandezza indipendente da tutto il resto e definito ex ante, le aliquote diventano flessibili e si relazionano con i redditi/gli imponibili secondo un’iperbole equilatera.
L’aliquota media (pressione fiscale) è semplicemente il reddito nazionale, condizionato dal ciclo economico, diviso per il gettito desiderato. Nell’ipotesi (per ora irrealistica) che il reddito si dimezzi le aliquote debbono pertanto raddoppiare per garantire lo stesso gettito. E se il reddito tendesse a zero? A quanto dovrebbero tendere le aliquote? La risposta è a infinito, non al (modesto) 100%! In sintesi siamo di fronte a un decisore di politica economica che sembra aver preso a modello l’eroe del film a cartoni Toy story, l’astronauta Buzz Lightyear, il cui famoso slogan era “verso l’infinito (in questo caso fiscale) e oltre”!
Ma è naturalmente un approccio assurdo, dato che aliquote e redditi non sono variabili tra loro indipendenti: al crescere delle aliquote partendo da valori contenuti il gettito certamente sale, ma per aliquote che continuano a crescere partendo da valori molto alti il gettito si riduce dato che cancella il fenomeno economico tartassato. Non c’è bisogno di scomodare Arthur Laffer per essere consapevoli che un’aliquota al 100% produce gettito zero: un’imposta espropriativa riesce ad associare gettito nullo, come nel caso di nessuna imposta, a fenomeno economico nullo. Splendido risultato!
Cosa bisognerebbe fare allora? È evidente che per aumentare il gettito bisogna iniziare a ridurre, e farlo a regime in maniera considerevole, le aliquote fiscali al fine di rilanciare i fenomeni economici soffocati dall’alta pressione. Ma questo non è fattibile sin tanto che i cittadini e gli attori economici privati in generale non riusciranno a imporre ai decisori politici il semplice vincolo che sono le entrate pubbliche conseguibili con aliquote eque e ragionevoli a stabilire quanto esattamente lo stato può spendere.
Postilla: poiché quel tempo sembra essere piuttosto lontano non ci resta per ora che consolarci con l’immagine del nostro primo ministro e del responsabile dell’Agenzia delle Entrate nei panni degli astronauti di Toy story alla ricerca dell’infinito fiscale e, chissà, magari anche con quella di Angela Merkel nei panni dell’antagonista, l’infame imperatore Zurg!