Con poche anche se lodevolissime eccezioni, la ricerca è stata un argomento assente dal dibattito politico di questo periodo elettorale. Eppure dovremmo ricordare che l’innovazione e la ricerca sono sempre stati i fattori principali dello sviluppo non solo dell’Italia nei momenti più critici della sua storia, ma anche, ai nostri giorni, dei paesi che hanno l’obiettivo di competere a livello internazionale. Perfino gli Stati Uniti si sono posti la domanda se saranno ancora per il futuro leader e la risposta che è stata data dopo un approfondito studio è che corrono gravi pericoli, in particolare se non saranno più in grado di attirare, come nel passato, talenti brillanti da tutto il mondo. Forse noi dovremmo porci la domanda di cosa fare per non uscire, fra breve e per chissà quanto tempo, dal novero dei paesi che ne possono trainare altri o se, viceversa, saremo costretti a giocare in Europa lo stesso ruolo che ha avuto il Mezzogiorno per l’Italia.
La mancanza di dibattito su questo tema potrebbe derivare da due tipi diversi di considerazioni: da un lato ritenere la ricerca assolutamente secondaria per il futuro del paese, ovvero, dall’altro lato, pensare che ormai non ci sia più niente da fare. Sulla prima argomentazione non si può controbattere in poche righe, basta solo richiamare le posizioni di paesi “ricchi”, quali gli Usa, il Canada, il Giappone, il Regno Unito, i paesi scandinavi e gran parte degli stati dell’Ue, ma anche di quelli in forte crescita: Cina, Korea, India, Vietnam, Singapore. Sulla seconda argomentazione diciamo semplicemente che non è vera, perché abbiamo tutte le condizioni di base per poter invertire l’attuale tendenza, che è negativa. Basta volerlo. A tal riguardo, due appaiono essere le condizioni preliminari.
Un’efficace strategia di ricerca richiede tempi lunghi per l’ottenimento di risultati rilevanti: occorre perciò una ampia condivisione nelle fasi di definizione e di attuazione. Le forze politiche maggiori quanto sono disposte ad accettare o addirittura a volere tale condizione? La seconda è che si definisca una “vera” strategia di ricerca, il che finora, a mio avviso, non è ancora accaduto. Questo significa stabilire le priorità, concentrare gli sforzi, premiare il merito, rinforzare le forze, attuali e potenziali, creare le migliori condizioni al contorno.
Due parole su quest’ultimo aspetto. Fra i tanti, un fattore risulta fondamentale: la disponibilità di talenti. Ciò significa impostare una strategia del processo formativo, a partire dalla scuola elementare, in cui il merito sia il punto di partenza: merito non solo per gli studenti ma anche per i docenti. Ma questo significa selezione e premi mirati. Per arrivare alla fine del processo formativo, è necessario affrontare il problema dei ricercatori. Il “precariato” è un problema in tanto in quanto ben pochi sono sicuri di essere valutati sul merito: se la gran parte fosse, al contrario, certa di “far carriera” in base solo ai risultati ottenuti, automaticamente il precariato si sgonfierebbe. Ma ciò implica anche dare spazio ed autonomia ai giovani ricercatori, con risorse adeguate per poter condurre la “loro” ricerca. Ma per fare ciò è necessario adottare un sistema di valutazione adeguato.
Abbiamo una grande opportunità: giusto lo scorso dicembre la Regione Lombardia ha firmato un accordo con il Nih (National Institute of Health) per borse di post-doc, e sta per firmarne altri con prestigiosi istituti di ricerca esteri, il cui sistema di valutazione è severo ed affidabile. Perché non dare ai ricercatori, dopo i 3 anni di post-doc, un ammontare di risorse che gli permetta di proseguire la propria ricerca in tranquillità ed autonomia? Sarebbe un primo passo per muoversi verso l’adozione di sistemi di progressione di carriera ben più affidabili rispetto agli attuali “concorsi” e potremmo anche sperare, in tal modo, di attrarre talenti dall’estero. Potrebbe essere questa una prima, piccola ma rilevante, decisione bipartisan?