L’impostazione che il Ministro Giulio Tremonti ha dato ai problemi di spesa della scuola è identica ai calcoli fatti da molti suoi predecessori. La previsione scritta nel provvedimento finanziario presentato alla riunione di Governo del 18 giugno parla di 90-100 mila posti in meno, che andranno ad aggiungersi alla riduzione di 47 mila posti prevista dalla legge finanziaria per il 2007: quindi 137-147mila in tre anni. Tra le altre cose questo comporta la messa a rischio delle 20mila assunzioni stabilite dal Governo uscente.
A questi tagli va poi sommata l’ulteriore riduzione di fondi, chiamata “risparmio” nella Finanziaria 2007: si tratta di 546milioni di euro sottratti alla scuola, in applicazione della “clausola di salvaguardia”, che solo in queste ore potrebbe essere compensata in parte con uno stanziamento straordinario di 150-200 milioni.
Questa via non ha nulla a che fare con un serio affronto dell’emergenza educativa da tutti declamata. Occorre un’altra via e sappiamo che il Ministro dell’Istruzione è seriamente interessato a nuove soluzioni.
La vicende di altri governi europei o americani hanno mostrato con chiarezza che il vero problema della scuola non è risparmiare, ma di investire, riportando la spesa sotto un unico controllo, responsabile effettivo dei risultati. E quest’unico centro di spesa (come altrove è ormai chiaro) anche in Italia deve diventare l’istituzione scolastica autonoma, statale o paritaria che sia.
Il nuovo Governo – come DiSAL segnalò all’indomani della vittoria elettorale – ha davanti a sé un quadro di chiara governabilità, con tutte le condizioni per intraprendere, se si vuole, una nuova via al superamento della complicata crisi della scuola italiana.
Occorre quindi un’altra via. A meno che il ministro Tremonti voglia dare una mano alle spinte corporative o alle resistenze di certi apparati: il che metterebbe in grave difficoltà il collega Ministro dell’Istruzione.
D’altra parte, offrire strumenti a chi è disposto a darsi da fare per rivitalizzare la grande avventura dell’educazione e dell’istruzione, significa innanzitutto fare scelte di qualità e non di quantità. Ce lo ha ricordato proprio la scorsa settimana nuovamente il Governatore della Banca d’Italia Draghi. La necessaria revisione, in Italia, del coefficiente di rapporto docenti/alunni non può essere affrontata allo stesso modo di quella del personale di tutti i ministeri o delle Forze Armate.
Se proprio si vuole cominciare con percentuali da ridurre a pioggia, si abbia allora il coraggio di affrontare l’anomalia, solo italiana, del personale non docente appartenente alla figura del “collaboratore scolastico” (o bidello), trasferendo alle scuole direttamente i fondi per assumere il personale strettamente necessario e per avviare gare su imprese di pulizie.
Ma la questione docente non si può in alcun modo iniziare ad affrontare con una programmazione triennale di percentuali a pioggia di tagli del personale dipendente. E’ assurdo trattare allo stesso modo insegnamenti fondamentali per la preparazione culturale, insegnamenti specifici, integrativi o di supporto tecnico-pratico.
Occorre quindi prima stabilire quali siano gli insegnamenti indispensabili per i vari corsi e indirizzi, quale il monte ore annuale, quali debbono essere gli indirizzi di studio delle scuole superiori, in quali di questi siano indispensabili docenti tecnico-pratici: cioè occorre fare scelte di standard, di qualità formativa. Altrimenti si otterranno risultati assurdi, realizzati in questi anni, come la parcellizzazione delle docenze nelle classi (fino a 14 materie di 2 ore l’una) o le forti disparità tra discipline (si pensi, ad esempio, al docente di lettere nei professionali con 4 classi e al docente di lettere nella scuola media statale con una sola classe di insegnamento diretto).
Di converso si cominci a garantire per il prossimo settembre a tutte le scuole la stabilità dei docenti necessari per iniziare regolarmente le lezioni: con le immissioni in ruolo già decise, con la conferma dei supplenti dello scorso anno su tutti i posti rimasti liberi. Altrimenti l’anno scolastico più lungo d’Europa (200 giorni) diventerà, come ogni anno, di 170 o 150, a seconda delle province. Chi non ricorda che quest’anno che finisce ha visto nelle scuole statali il cambio di tutti i supplenti (un terzo del personale) a dicembre, per l’entrata delle nuove graduatorie. Quale azienda a queste condizioni può permettersi il lusso di perseguire obiettivi di qualità?
Chi scrive registra, nell’istituto professionale che dirige, 32 supplenti su 72 posti docente. Nelle elementari statali i docenti supplenti arrivano in certe province ad un terzo delle maestre. Quale azienda italiana può riprendere l’attività dopo le ferie con la mancanza di un terzo del personale? Moltissime scuole italiane da anni sono costrette a fare così!
La sproporzione tra l’investimento in istruzione (compreso l’eccesso di personale) ed i risultati non si colma se non mettendo mano alle distorsioni che causano la spreco: centralismo statale e radicato potere delle corporazioni, assenza di autonomia e di sana competizione tra tutti i tipi di scuole, assenza di valutazione di tutti gli operatori del servizio scolastico, confusione e stratificazione di norme contraddittorie, mancanza di precise responsabilità nel sistema.
Le minoranze che oggi lavorano seriamente nelle scuole non possono accettare in alcun modo che si cominci invece dai tagli: questi manifestano il perpetuarsi del disinteresse dei Governi e della società per le proprie scuole! Chi ha responsabilità decisionali deve sempre affrontare i problemi della scuola come investimento per il futuro di tutti e non come unicamente spesa su cui fare tagli indiscriminati!
Occorre un’altra via: che parta dal rispetto del diritto all’istruzione degli alunni e delle famiglie, anche se la qualità dipende poi da chi c’è in cattedra o da chi dirige. Ma questo è ben altro grave problema, dell’intricatissimo puzzle della nostra povera scuola.