A seguito della riforma dell’università (DM 509/99) nota come riforma del 3+2, il numero dei laureati italiani è aumentato allineandosi così ai dettami del processo di Bologna, mirante ad armonizzare la formazione universitaria a livello europeo. Tale processo si collega poi a quello di Lisbona che ha come obbiettivo quello di creare in Europa una Società della Conoscenza diffusa (estesa ed omogenea) per dare al vecchio continente forza e competitività attraverso l’innovazione e lo sviluppo nei confronti delle economie asiatiche emergenti.
Se il numero dei laureati è effettivamente aumentato, l’analisi dei risultati e delle statistiche legate agli effetti di questa riforma sembra indicare che essa abbia avuto pesanti conseguenze sul livello formativo fornito dall’università italiana. La laurea triennale infatti prevede lo stesso numero di esami della laurea precedente, dimezzando il numero di ore dedicate ad ogni corso. A detta di insegnanti, studenti e datori di lavoro, il livello medio di preparazione è oggi decisamente inferiore rispetto al vecchio ordinamento e la conoscenza è prevalentemente nozionistica, mentre il percorso formativo non comporta più una crescita di metodo e una comprensione autentica. In altri termini, il sistema attuale abbassa la soglia delle risorse intellettuali necessarie a perseguire la laurea e come tale appiattisce il livello intellettuale generale. Così la laurea oggi è un pezzo di carta che tutti, a prescindere dalle proprie reali capacità, possono ottenere. Inoltre, se tale riforma si proponeva di creare dei aureati che potessero entrare prima nel mondo del lavoro, le statistiche più recenti (vedi l’indagine Condizione occupazionale dei laureati di Andrea Cammelli sul sito di Alma Laurea) dicono che circa il 70% degli studenti sceglie di continuare dopo i primi tre anni e di fare anche la laurea specialistica. Questo può essere attribuito a due fattori: l’incompletezza formativa dei primi tre anni e la difficoltà di trovare un lavoro adeguato dopo il primo ciclo (le aziende hanno sempre preferito pagare meno un diplomato che assumere un laureato, oggi per giunta di scarse capacità e scarse conoscenze). Così l’università da parcheggio ‘elitario’ di persone che hanno fatto fatica ad ottenere una laurea di valore, si è trasformata in un parcheggio di massa. Le reali possibilità dell’Europa di competere con l’aggressività economica dei paesi asiatici creando una società della conoscenza fondata su queste basi sono, a mio giudizio, molto esigue. La conoscenza che potrebbe rendere l’Europa centro produttivo di innovazione in tutti i settori è quella che verrà dai centri di ricerca di eccellenza efficienti e avanzati frutto del coraggio di investire nella ricerca e sviluppo e su progetti strategici, premiando e selezionando i migliori. Su queste basi, il maggior avanzamento si registrerà laddove ricercatori di alta formazione e diversa specializzazione (chimici, fisici, ingegneri) collaboreranno. La multidisciplinarietà sarà, ancor più che in passato, il segreto per l’innovazione radicale nei settori più svariati. L’attitudine e la capacità di confrontarsi con persone di formazione diversa non si creano in tre anni di formazione nozionistica. L’unico modo per produrre ricerca che crea innovazione e sviluppo sarà allora quello di arruolare studiosi e ricercatori stranieri. Ma potrà l’Italia esercitare potere attrattivo nei confronti delle menti straniere quando i nostri cervelli stanno fuggendo? Solo un sistema di più riforme che coinvolgono il diritto allo studio, la premialità dei salari sulla base dei risultati, e il finanziamento degli atenei vincolato al conseguimento di obiettivi di eccellenza potrà dare luogo al miglioramento dell’offerta formativa e alla qualità della ricerca prodotta.
Cristina Bertoni – Associazione Italiana per la Ricerca