Nella discussione innescata dall’approvazione del decreto sull’università il tema della valutazione dei docenti ha assunto un ruolo centrale. Sulla stampa sono apparsi, come di consueto, una pluralità di interventi variegati; ma il tono dominante – con alcune significative eccezioni – è forse riassumibile nell’affermazione seguente: “È utile, necessario ed eticamente doveroso valutare i docenti universitari e questa valutazione ha da essere condotta attraverso criteri oggettivi”.
Il giudizio precedente è frutto di una stranissima alleanza politica e culturale che contiene elementi del liberalismo più sfrenato insieme a prassi di centralismo burocratico. Da un lato, la valutazione basata su indicatori bibliometrici è “buona” perché riflette fedelmente un meccanismo di mercato, quello delle riviste scientifiche e dei meccanismi ricorsivi che ne decretano l’autorevolezza. Dall’altro, spetta al ministero stabilire, per decreto, quali siano i requisiti di scientificità di una pubblicazione e/o i criteri minimi per accedere ad un certo ruolo e/o per ottenere un avanzamento di carriera, perché gli accademici, da soli, sono incapaci di auto-governarsi.
Questo clima culturale, che secondo alcuni deriva non tanto da una “non esistenza” della ragione quanto da una sua perdita di autostima ed integrità, può essere forse rappresentato in modo icastico da un sito (ed un blog) come www.pubblicoergosum.org nel quale mi sono recentemente imbattuto.
Il sito, al di là di alcune sottigliezze metodologiche riflette, almeno nel titolo, un’antropologia aberrante: se non pubblichi, e non pubblichi “bene” (qualsiasi cosa voglia dire quest’ultimo avverbio), allora non soltanto non meriti progressioni di carriera e non puoi fare parte di commissioni di valutazione per il reclutamento (come ipotizza il decreto Gelmini), ma addirittura ti viene negata la stessa possibilità di esistere.
Al di là del paradosso qui sopra enunciato, è allora utile, necessario ed eticamente doveroso fare alcune considerazioni.
La prima: qualsiasi indicatore bibliometrico “oggettivo” basato sulle citazioni (e non sulla lettura attenta della pubblicazione) produce, come risultato, un peggioramento dello stato della ricerca scientifica. Infatti incoraggia la superficialità della ricerca, l’incremento inutile della coauthorship, la ripetizione dei risultati, la pubblicazione di molti studi, ciascuno di respiro ed ampiezza limitati.
La seconda: l’uso di tali indicatori produce ulteriori distorsioni ancora più preoccupanti dal punto di vista etico. Nel momento in cui diventa operativo un sistema di incentivi (per l’ingresso o le progressioni di carriera) basato su questi indicatori è facile che si sviluppino comportamenti viziosi quali: patti di pubblicazione (ti aggiungo come coautore al mio paper se tu mi aggiungi come coautore al tuo), patti di citazione (io cito i tuoi lavori se tu citi i miei) costruzione “artificiale” di paper (ottenuti attraverso processi di re-engineering di paper precedenti o come risposta ai call delle conferenze invece di essere basati su progetti originali di ricerca di lungo periodo.
La terza (e più importante) considerazione: non credo che in alcun ambito umano sia possibile ottenere la salvezza e la redenzione attraverso un insieme di regole. Questo non significa che non vi siano regole migliori di altre ed istituzioni peggiori di altre (la dottrina sociale contiene l’utile concetto di “strutture di peccato”). Ma il bene ed il male sono sempre ed imprescindibilmente opera dell’uomo e della sua libertà. È per questo che non credo che si possa disegnare un sistema di valutazione del corpo docente delle università che prescinda da una valutazione da parte di persone che, individualmente, esprimano con trasparenza (e, dunque, con responsabilità individuale) il giudizio sulla produzione scientifica di altre persone.
Forse, in conclusione, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di una correlazione tra il predominio culturale del “pensiero debole” e del relativismo e questa ricerca, da parte dell’accademia, di presunti indicatori “oggettivi” che, a ben vedere, sono tutt’altro che oggettivi. L’oggettività ottenuta attraverso il fenomeno delle citazioni è infatti basata sul consenso che è intrinsecamente conservatore e impermeabile al nuovo.
La valutazione soggettiva, se esercitata bene, si basa invece su un giudizio individuale di un prodotto scientifico, operato da un soggetto responsabile (e competente) che confronta tale prodotto con una, sia pur parziale ed incompleta, concezione della verità. Cioè io giudico buono un paper se descrive e/o interpreta, meglio di quanto io sappia o abbia saputo fare, quello che io ritengo sia la “vera essenza” di un fenomeno.
Se così fosse, mi sembra che, al di là e al di sopra del pur indispensabile dibattito circa la riforma dell’università, la sfida ed il compito dei filosofi morali e degli epistemologi per i prossimi anni non possa esimersi dall’occuparsi seriamente del fondamento ontologico queste tematiche.