La scelta di un modello orario, in generale, dovrebbe essere commisurata alla capacità del sistema organizzativo e gestionale che la sottende di rispondere più efficacemente di altri ai bisogni formativi della fascia scolare cui si riferisce.
Il limite della scelta operata attraverso il DL 137/08 consiste nel non aver dichiarato i presupposti di natura pedagogica che l’hanno ispirata, anche se a posteriori si è cercato di introdurre un parziale rimedio a questa debolezza d’impianto. La norma, in effetti, fa espresso riferimento agli obiettivi di contenimento e di razionalizzazione della spesa pubblica. Ma se si assume il punto di vista della qualità pedagogica del modello organizzativo di una scuola, il discorso deve andare inevitabilmente oltre i limiti delle esigenze e delle compatibilità economiche.
Per esprimere, quindi, un giudizio minimamente fondato su una scelta di tale rilevanza bisogna preventivamente chiarire i termini della questione.
Giova sempre ricordare, come primo passaggio, che l’adozione di un modello organizzativo per la scuola primaria in parte discende dalle prescrizione delle norme ordinamentali, in parte rientra nello specifico ambito di responsabilità progettuale delle scuole autonome. In quanto tale, e tenendo fermo il dovere della scuola di rispondere ai bisogni reali che la sua collettività esprime, dovrebbe rispondere ad una prima esigenza, di carattere generale, che potremmo definire in questi termini: rendere praticabile un impianto pedagogico-didattico che risponda ai bisogni di apprendimento e di sviluppo personale degli alunni e consenta di attivare le condizioni di contesto più favorevoli ad un efficace processo di apprendimento e di crescita.
La realtà dimostra che, accanto a questo compito fondamentale, è andato via via crescendo il peso e l’influenza di esigenze delle famiglie che potremmo genericamente definire “sociali”. Potremmo addirittura sostenere che con il passare del tempo l’esigenza di fondo si è andata vieppiù miscelando con l’esigenza accessoria, al punto da confondere i piani e da rovesciare l’ordine delle priorità.
Il tempo-scuola negli ultimi decenni si è andato progressivamente dilatando, non tanto per rispondere ad una esigenza di natura didattica quanto per assicurare alle famiglie una gestione “controllata” degli alunni in un orario pomeridiano. Questa situazione, particolarmente diffusa nelle aree a forte concentrazione urbana, ha prodotto una interpretazione estensiva del ruolo della scuola, chiamata spesso ad assolvere compiti di assistenza non propriamente connessi alla propria funzione istituzionale e al profilo professionale degli addetti.
Se, dunque, la priorità che viene assunta a criterio ispiratore del modello organizzativo della scuola è la gestione dell’alunno ad essa affidato, ne consegue che l’espansione del tempo-scuola verrà automaticamente interpretato come un valore.
Se, invece, la priorità venisse individuata nella volontà di puntare alla massima efficacia in termini di apprendimento, probabilmente le scelte organizzative si orienterebbero verso modelli qualitativi piuttosto che quantitativi.
Chi lavora con gli alunni della scuola primaria sa quali sono i tempi di attenzione e di concentrazione nel lavoro di bambini di 6 o di 8 anni, conosce la difficoltà di contenerli nell’ambiente classe, gli sforzi necessari per stimolare il loro interesse, per lavorare sulla meta-cognizione, per tradurre la curiosità del momento in riflessione e in rielaborazione personale. In un contesto di questo tipo risulta piuttosto arduo sostenere che l’allungamento dei tempi di lavoro e di studio favorisca tout court l’apprendimento. In altre parole potremmo dire che più scuola non produce automaticamente maggiore efficacia formativa. La controprova di questa affermazione ci è fornita dalla consuetudine delle scuole con orario pomeridiano o a tempo pieno di inframmezzare l’attività didattica con ricorrenti spazi di “ricreazione”, giustificati con l’esigenza di valorizzare il gioco e la socializzazione, ma in effetti funzionali alla necessità di concedere agli alunni tempi di recupero.
Sta di fatto che il bisogno pressante delle famiglie di assicurarsi un modello che risolva i problemi di gestione del tempo ha sensibilmente influenzato l’azione delle scuole primarie. Può succedere, ad esempio, che una scuola decida di articolare il proprio modello orario a tempo pieno ma a settimana corta, un ossimoro organizzativo soltanto apparente se il criterio che ispira le scelte diventa la risposta alle esigenze logistiche delle famiglie. La centralità dell’atto educativo rischia di perdersi, non è più il fulcro attorno al quale ogni elemento organizzativo dovrebbe ruotare.
Una prima conclusione di questa riflessione potrebbe dunque riferirsi all’opportunità di dichiarare in anticipo che cosa determina la qualità dell’azione di una scuola. Se il valore di riferimento restano le performances degli alunni in termini di apprendimento e di maturazione personale diventa lecito arrivare alla conclusione che la qualità dell’azione formativa non è direttamente proporzionale alla quantità del tempo trascorso a scuola.
Una seconda conclusione porta a ritenere che l’esigenza di innalzare i livelli qualitativi delle prestazioni dei nostri alunni richiede che il confronto si sposti dai modelli orari alla necessità di ripensare il modello pedagogico e richiedere ai docenti una attenta rivisitazione delle loro competenze professionali. Questo non esclude che la scuola si faccia carico anche delle esigenze “accessorie”, ma impone che questo non si verifichi a discapito delle esigenze primarie, che vanno coerentemente assunte nel momento in cui una scuola è chiamata a presentare la propria offerta formativa e i principi di fondo che la ispirano.