La recente pubblicazione del rapporto sull’educazione dell’OCSE, “Education at a glance 2009” consiste in un voluminoso dossier che supera le 500 pagine. Dati raccolti su scala mondiale che mettono a nudo la situazione dell’educazione scolastica di quest’anno. A commentare alcuni punti di interesse è oggi, per ilsussidiario.net, Daniele Checchi, docente di Economia politica all’Università di Milano.
Professor Checchi, il rapporto Ocse sull’educazione “Education at a glance 2009” è stato appena diffuso. Quali sono gli elementi di maggior interesse a una prima analisi del documento?
Ci sono due cose che varrebbe la pena di osservare a fronte di questi dati. La prima riguarda il fatto che sempre di più l’Ocse è passato da indicatori di tipo quantitativo, ossia le quote di popolazione laureata, diplomata, gli abbandoni etc., che pure sono dati importanti, al tentativo di classificare anche le caratteristiche istituzionali dei sistemi formativi mettendo in luce che ci sono veramente delle disparità enormi fra i vari modelli presi in considerazione. La seconda è uno sguardo incentrato anche sui lavoratori della scuola.
Può farci qualche esempio?
Cito un paio di dati: il primo è il numero totale di lezioni che riceve lo studente all’inizio della sua carriera, dalle elementari fino alla fine della secondaria, che va dalle 8.000 ore dell’Italia alle poco meno di 6.000 ore in Estonia o in Finlandia. La seconda cosa che vale la pena di segnalare ai lettori è che l’Ocse, su indicazione probabilmente dei governi, ha promosso per la prima volta una rilevazione delle percezioni degli insegnanti. Anche qui non sono più dati quantitativi che diremmo dati “hard”, perché sono ovviamente l’opinione di un campione rappresentativo di docenti che però hanno il grosso vantaggio di dirci come la scuola viene vista da uno dei suoi attori principali, il corpo docente.
Quali sono in questo senso le novità più interessanti relative alla situazione in Italia dei docenti?
Il grafico che mi ha colpito di più è una delle domande che viene posta agli insegnanti e riguarda la percezione che costoro hanno di essere o non essere valutati. L’Italia risulta essere il Paese dove è più elevata, nell’ordine del 70 per cento, la quota di docenti che dicono che il loro lavoro non viene valutato. In poche parola c’è una maggioranza che, contrariamente a molti luoghi comuni, sarebbe probabilmente favorevole a una qualche forma di riconoscimento della qualità del lavoro che svolge. Questo non implica che costoro siano d’accordo a legare a tale esigenza forme di incentivazione anche monetaria, però il dato segnala un aspetto davvero interessante.
È del tutto una sorpresa o c’era già qualche sentore di tale esigenza?
La percezione che l’atteggiamento degli insegnanti stesse cambiando rispetto alla valutazione è un’impressione che avevo già. Mi era sorta grazie a lunghi colloqui con singoli docenti. Il vederlo quantificato mi darebbe l’incentivo, se fossi il ministro Gelmini, a usare tale resoconto come “cavallo di battaglia” per le mie riforme. Un campione rappresentativo degli insegnanti infatti dimostra che quella della valutazione è un’urgenza molto sentita.
A fronte di un così elevato numero di ore che uno studente italiano passa a scuola sembra non corrispondere un’altrettanto solida preparazione. Che cosa dice l’Ocse in proposito?
Per quel che concerne il rapporto tempo/qualità l’Ocse è stata giustamente molto cauta nella valutazione, come sempre. Anche se in realtà offrono su un piatto d’argento il responso alla comunità scientifica degli operatori del settore ponendo la relazione fra le caratteristiche istituzionali dell’impianto scolastico di un Paese e d’altro canto evidenziando molte delle sue variabili di risultato. L’Ocse comunque tiene una variabilità alta nelle ipotesi di ricerca e si colloca in una funzione di mero fornitore di dati. Sebbene questi medesimi dati siano ovviamente orientati a partire da alcune ipotesi, lasciano allo studioso la scelta di che cosa occuparsi o di che cosa paragonare. Quindi per fare un discorso sulla qualità ci vorrà ancora del tempo.
In generale vede qualche cambiamento “lampante” all’interno del nostro sistema di istruzione?
In senso negativo non ne vedo di particolari. In senso positivo c’è il continuo processo di tendenza alla partecipazione scolastica. L’Italia, fino a dieci, venti anni fa, era infatti un Paese a partecipazione scolastica tardiva. Stiamo pian piano accorciando il gap in termini di quota di diplomati, quota di laureati e via dicendo. È un cambiamento forte, consistente, sebbene i più accorti sapessero già che la situazione delle ultime generazioni è di gran lunga migliorata rispetto al passato.