La “crisi” della grammatica è un aspetto fondamentale del declino culturale imperante. Come fare per riproporla con qualche possibilità di successo? Il commento di DANIELA GRAFFIGNA
Da più parti viene lanciato un grido d’allarme sul livello (basso, bassissimo) dell’educazione linguistica dei giovani e anche dei non più giovanissimi nel nostro Paese; si parla addirittura (Mastrocola dalle colonne de La Stampa) di Emergenza Linguistica Nazionale, non si capisce se più grave dell’emergenza educativa o se punta di iceberg di quest’ultima.
Se non la soluzione – possibile solo nel lungo periodo – quanto meno l’affronto dell’emergenza non può non passare, è ovvio, da un ritorno ad un insegnamento scolastico serio e intenso della “grammatica”.
Ma proprio qui si annida il vero problema: come impartire l’insegnamento della grammatica ai nostri studenti, in modo che si traduca in conoscenza e competenza durevolmente acquisite? È evidente infatti a chi pratichi il mondo della scuola che non è l’insegnamento linguistico a essere venuto meno: è venuta meno l’efficacia di un metodo tradizionale pur glorioso, ma con tutta evidenza non più adeguato alle mutate condizioni cognitive, culturali e sociali dei nostri giovani.
Non è possibile rispondere a tale questione nello spazio di un solo articolo, tuttavia paiono interessante oggetto di riflessione e di dibattito le conclusioni-proposte emerse dal recente convegno nazionale del Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) tenutosi a Padova dal 4 al 6 marzo scorsi, dall’accattivante titolo La grammatica a scuola. Quando? Come? Quale? Perché?
I numerosi interventi, di insegnanti e studiosi – tra i quali spiccano i nomi di Tullio De Mauro e Luca Serianni – hanno messo in luce i seguenti punti:
1. la necessità dell’elaborazione di un curriculum di educazione linguistica progressivo verticale, e non ricorsivo, dalle elementari all’università, che permetta agli studenti di affrontare aspetti e argomenti adeguati allo sviluppo cognitivo della loro età (“Perché i manuali delle elementari devono contenere – pena il non essere scelti dalle maestre – la definizione di antònimo, se poi neppure all’università gli studenti di lettere sanno cosa sia questo misterioso oggetto?” ha osservato il professor De Mauro);
2. non multa, sed multum: gli argomenti di studio vengano presentati in maniera essenziale, ma solida e chiara: il manuale di grammatica deve appunto essere un manuale, non una trattazione enciclopedico-scientifica delle ultimissime acquisizioni (o pseudo-acquisizioni) della linguistica contemporanea;
3. questo secondo punto richiede che insegnanti e manuali siano il più possibile preparati gli uni e rigorosi gli altri (metodologicamente ineccepibili e purtroppo proporzionalmente impietosi sono stati i risultati dell’esame condotto dal professor Serianni sui più usati manuali di grammatica in uso nella scuola secondaria di primo e secondo grado).
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Dietro e prima tutto ciò, c’è però, a mio avviso, la questione fondamentale, dalla quale partire per stimolare e motivare i ragazzi all’apprendimento della grammatica: perché vale la pena studiarla? Qual è l’incremento di umanità che se ne trae?
Vale la pena studiare la grammatica se si ha chiaro – e se lo ha chiaro soprattutto il docente – che essa non è un astratto modello autoreferenziale, fatto di categorie, sottocategorie, oggetti dai contorni sfocati, che rendono molto meno chiaro e assai complicato ciò che tutti usiamo in genere con una certa competenza pragmatica. La grammatica ha invece a che fare con la varietà dei mezzi linguistici a disposizione per esprimersi: può e deve portare chi la padroneggia ad incrementare il proprio rapporto con la realtà, nei termini di una maggiore capacità, verbale perché innanzitutto logica, di comprendere e dire se stessi e il mondo.
Occorre in altre parole superare la divisione tra “teoria” (il modello grammaticale di riferimento, spesso astratto) e la “pratica”, che, se rimane non consapevole e istintiva, spesso risulta pesantemente errata e non produce crescita nel soggetto. A livello di manualistica scolastica, questa divisione è ben rappresentata dalla realizzazione delle grammatiche in due volumi: l’uno, più corposo, presenta “la grammatica” (le regole) ed il lessico; l’altro, generalmente più snello, fornisce prescrizioni per la realizzazione dei testi, sia verbali che scritti. Il messaggio implicito in questa scelta editoriale è molto chiaro: le regole che presiedono al funzionamento dello strumento lingua non hanno diretta e immediata influenza sulle realizzazioni pratiche degli oggetti linguistici (testi).
Oggetto della grammatica, e dunque del suo insegnamento, è invece il discorso, cioè una costruzione linguistica che funziona (coesa), conforme all’esperienza ragionevole delle cose (coerente), riferita ad una realtà condivisa, e portatrice di una intenzionalità. Lo studente deve essere messo in grado di comprendere e realizzare “discorsi” nel senso appena citato. Lo potrà fare se sarà condotto alla consapevolezza, teorica e pratica, che la forma delle parole (la morfologia), è strumento per la realizzazione di un significato (semantica) o di una struttura linguistica (sintassi), e che i nessi tra le parti e le funzioni delle parti rispetto al tutto sono più importanti dei singoli “pezzi” che le realizzano.
Il significato, come l’esperienza di cui è traduzione, non è classificabile; esso è però veicolato da elementi linguistici: una grammatica che voglia avere una validità scientifica e didattica non si ridurrà quindi ad una serie di definizioni nelle quali costringere l’infinita varietà del reale (cioè delle sue realizzazioni linguistiche), ma, partendo dall’osservazione dell’esperienza, condurrà alla consapevolezza e padronanza degli strumenti che il significato permettono di esprimere.