SCUOLA/ La grande lezione di Annemarie al Benigni de “La vita è bella”

- Luigi Ballerini

Gli adulti trattano con rispetto le domande dei bambini, la loro voglia di sapere? O piuttosto a volte si accontentano di fornire loro una realtà fittizia? LUIGI BALLERINI

scuola_bambino_ferroviaR400 Foto: Fotolia

Conta le stelle, per lettori dagli undici anni, esce in libreria per Giunti in occasione del Giorno della Memoria. Lois Lowry, famosa autrice per ragazzi nata nelle Hawaii nel 1937 e nota soprattutto per The Giver e la sua trilogia, narra una storia di amicizia fra Annemarie ed Ellen, quest’ultima ebrea.

Siamo a Copenaghen nel 1943, la Danimarca è occupata già da tre anni dalle forze tedesche e sta per conoscere la persecuzione degli ebrei. A dieci anni Annemarie ed Ellen non sono troppo piccole per capire che qualcosa di grave sta accadendo, per saper riconoscere i cattivi agli angoli delle strade, per immaginare di doversi difendere e farlo quando serve; non è troppo piccola neppure Kirsti, sorellina di cinque anni di Annemarie, nonostante la sua giovanissima età e certe simpatiche intemperanze del suo carattere.

Nella narrazione seguiamo le vicende delle due amiche e delle loro famiglie alle prese con una fuga verso la Svezia, terra libera dai nazisti e separata solamente da una lingua di mare. Interverrà la Resistenza, con cui la famiglia di Annemarie ha una certa, dolorosa, familiarità…

Una storia delicata di amicizia, raccontata quasi sempre con gli occhi vispi e pieni di domande dei bambini che cercano di capire, che vogliono capire e che sanno chiedere.

Ecco, trovo sia questo il punto di maggior pregio del libro della Lowry, il rispetto con cui tratta le domande dei bambini, la loro voglia di sapere. Sapere a volte anche troppo, rischiando di entrare in possesso di informazioni che potrebbero causare loro del male, se note.

Come non fare il parallelo con Giosuè di cinque anni, figlio di Guido Orefice, l’ebreo interpretato da Benigni ne La vita è bella? Il celebrato film, dai tratti in apparenza teneri e poetici, in realtà mette in scena la disistima per il bambino e il suo pensiero configurandosi come un inno all’inganno dei più piccoli. Ma cosa avrebbe potuto fare un padre in quella situazione se non proteggere il figlio dalla realtà nemica?, potremmo chiederci smarriti, tutti presi dall’emozione della storia, senza pensare che quella situazione – irreale e artificiosa – è stata costruita ad hoc per dimostrare una tesi che la precedeva, senza pensare che in mano a uno sceneggiatore capace di un altro pensiero e altra stima per i bambini la stessa vicenda fantastica avrebbe potuto dipanarsi in ben altre direzioni. C’è un disagio sottile, indefinibile, che coglie spesso gli spettatori alla visione del film. Certo, dispiace vedere quel padre fare il pagliaccio dentro una tragedia. Ma la solidarietà non andrebbe a lui che col cuore rotto si presterebbe alla sceneggiata, quanto al bambino ritenuto così stupido da poterci credere. 

Cosa i bambini devono sapere, è un tema che ricorre in moltissime pagine di Conta la Stelle, ne può quasi diventare il principale filone di lettura, parallelo alla vicenda della fuga verso la salvezza dai nazisti della famiglia Rosen. Gli adulti, nella storia sempre presenti e attenti, figure buone che ascoltano e sanno parlare, che incoraggiano e mettono in guardia invitando i più piccoli a un giudizio personale, si pongono spesso la questione della consapevolezza dei minori rispetto a ciò che sta accadendo.

Ad esempio a metà storia irrompe in scena una bara, quella della presunta prozia Birte; Annemarie, ragazza sveglia e che è sempre stata informata delle vicende della sua famiglia, capisce al volo che non è mai esistita una tale parente. Così chiede lumi a uno zio un po’ reticente che mentre munge la mucca le conferma la menzogna riguardo la prozia, aggiungendo però: “È molto più facile esser coraggiosi quando non si sa tutto. Quindi tua mamma non sa tutto. E neppure io. Sappiamo solo quel che abbiamo bisogno di sapere. Capisci cosa sto dicendo?”. Non c’è nessun inganno qui, ammissione piuttosto di una precisa scelta fatta per proteggere, ma che non toglie nulla della drammaticità della situazione, anzi. E infatti “Annemarie annuì. Improvvisamente si sentì più grande”.

Il penultimo capitolo, dal titolo “Ti racconterò giusto qualcosa”, aggiunge tutto ciò che mancava, ma al momento opportuno, quando le informazioni possedute non possono più nuocere e servono per concludere con il pensiero. Persino nell’ultimissimo capitolo Annemarie scopre qualcosa di speciale sulla morte, avvenuta anni prima, di sua sorella Lisa. Come dire che c’è un tempo per tutto.

Dirsi sempre tutto, fra grandi è una teoria che a volte rovina le relazioni e non coincide affatto con la sincerità del rapporto. A maggior ragione coi bambini. Le nostre parole hanno un elevatissimo peso specifico per loro; se lo riconosciamo le sapremo usare, e dosare, al meglio.

Piuttosto che le stelle, ci conviene contare le parole. A volte sono troppe.





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