Può un professore di filosofia, didatticamente immerso nelle letture hegeliane e in approfondimenti sul neoplatonismo, difendere la cosiddetta “deriva” burocratica che ha travolto negli ultimi anni la scuola italiana? Sì, lo può, e a buon titolo, perché l’insofferenza diffusa, tra molti insegnanti, per documenti di programmazione, formulazione degli obiettivi e griglie di valutazione è sintomo talvolta di una concezione antidemocratica dell’educazione.
Mi spiego. Fatta salva la necessità di evitare ogni sorta di idolatria della tecnica, e dunque pure del tecnicismo didattico-pedagogico, non ci si può a lungo nascondere dietro lo schermo del rapporto individuale con la classe, o della libertà di insegnamento, che qui non è messa in discussione. Stilare una programmazione dettagliata all’inizio dell’anno non è solo un obbligo tedioso, che purtroppo si tende spesso a ottemperare ripetendo per ciascun ciclo scolastico la medesima formula. Ma è un compito delicato, e importantissimo. Prima di un viaggio occorre predisporre accuratamente mappe, prenotazioni e pianificazione logistica. Certo, chi parte “all’avventura” ha maggiori probabilità di provare intense emozioni, ma il rischio è pure quello di imbattersi in avversità, mancare per imperizia organizzativa dei mezzi necessari, e, non ultimo, rimanere insoddisfatti del viaggio.
Ora, qui non si tratta di fare i turisti. L’impresa educativa è più di un viaggio, e al di là della retorica sui “ragazzi”, va compreso che l’insegnamento è un compito sociale, che va assunto con la dovuta deontologia e passibile di controllo (anche qualora questo controllo non dovesse esistere, va sempre presunto, come forma di self-monitoring). Dunque una corretta predisposizione del programma iniziale, non solo per quel che concerne i contenuti – che anzi sono più facilmente gestibili, perché variano inevitabilmente in base al feedback della classe e all’andamento dell’anno scolastico – ma in particolare con una esplicitazione delle metodologie didattiche scelte, con i sistemi di verifica privilegiati e i criteri di valutazione (misurati sulla scorta di ancor più dettagliati obiettivi) è uno strumento fondamentale, per almeno tre motivi.
In primo luogo, l’insegnante redigendo il documento di programmazione fa mente locale su tempi e procedure, verifica con sé stesso l’utilità dell’idea adottata in passato ed è maggiormente indotto a introdurre varianti. Secondariamente, condivide con gli altri docenti e con gli studenti la trasparenza nelle procedure e nelle finalità, il che favorisce il lavoro in team, pratica che alcuni docenti tendono a eludere (spesso proprio i più capaci) in virtù di un individualismo comprensibile ma dannoso. Infine, il dettaglio nella programmazione è determinante per l’intersoggettività del lavoro. L’arrivo di un sostituto, in mancanza di questo materiale (in cui spesso è inserito anche un bilancio iniziale sulla classe) è mutilato.
L’idea che ciascuno possa far valere nell’insegnamento solo la propria soggettività, per quanto valida ed edificante, è insidiosa. Pertanto occorrerà difendere anche l’adozione delle famigerate griglie di valutazione, persino per le singole verifiche orali. Molti colleghi ancora storcono il naso di fronte a questa istanza, ma è un vecchio retaggio. Non si tratta di fare della griglia un feticcio, bensì uno strumento di trasparenza, necessario agli studenti per monitorare continuamente i parametri su cui sono valutati, sul perché quei valori sono più o meno importanti, e su come assestare al meglio la propria preparazione; tali strumenti non garantiscono certo l’oggettività, ma costituiscono una ponderata guida, un utile indicatore al docente nel processo valutativo, in quanto lo inducono a non caricare di eccessivo peso un singolo aspetto della preparazione a discapito di altri.
Non perché ciò sia sbagliato in sé, ma perché può andare inconsapevolmente in direzione opposta agli stessi obiettivi formativi che l’insegnante si era posto all’origine, e può potenzialmente danneggiare l’allievo, che non sarà indotto a “riparare” i propri punti di debolezza. Infine, va precisato che il docente non rammenta quasi mai, dopo mesi di lavoro, le ragioni di una valutazione positiva o negativa, decisa in passato. In questo senso, la griglia funge anche da promemoria e strumento di verifica dei progressi o dei regressi, garantendo al docente un certo polso sul proprio lavoro.
Le cosiddette “scartoffie” non lo sono in senso assoluto. I documenti relativi alle più articolate situazioni di disabilità sono fonti di informazioni preziose. La raccolta delle attività extracurriculari svolte dagli alunni, sono pure utili per comprendere la crescita complessiva degli allievi. E perché no? Io vi aggiungerei sociogrammi o altre attestazioni relative alle dinamiche sociali. I documenti sono fondamentali (se poi fossero informatizzati ancora meglio), perché, come diceva John Dewey, “per insegnare il latino a Giovannino, bisogna conoscere il latino e Giovannino”.
Lo scrivo pensando ai numerosi colleghi che ho incontrato in questi anni, dotati di un elevato profilo scientifico e culturale, non solo umano, ma ingiustificatamente ostili a quella che definiscono uno sterile pedagogismo o un’inutile e deleteria burocratizzazione dell’insegnamento. Il rischio opposto, però, è l’arbitrio totale, che fa tanto male alla scuola, perché gli studenti non sempre sono in grado di prevedere, sulla base del loro studio, l’esito di una verifica o il significato di una valutazione. Questo è un problema. Spesso sono dunque indotti a credere che il “voto” dipenda dalla personalità del docente o dalla specificità della relazione. Ovviamente non è così, nella gran parte dei casi, ma ne vanno resi consapevoli gli studenti attraverso una continua condivisione dei processi di insegnamento-apprendimento. Senza eccedere nel senso opposto, per cui tutto si ridurrebbe a macchinosa ripetizione di procedure, rivendico fortemente il valore di trasparenza, democraticità e intersoggettività,che la documentazione pedagogica non garantisce ma favorisce.