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Home » Educazione » SCUOLA/ Gavosto (Fondazione Agnelli): il concorso non salverà la “media”

  • Educazione

SCUOLA/ Gavosto (Fondazione Agnelli): il concorso non salverà la “media”

Int. Andrea Gavosto
Pubblicato 18 Dicembre 2012
scuola_concorso_giovaniR400

Infophoto

L’ultima indagine Iea 2011 in lettura (Pirls) e il matematica e scienze (Timss) “interroga” il concorso indetto da Profumo. Il commento di ANDREA GAVOSTO, direttore della Fondazione Agnelli

Siamo più bravi in IV elementare che in III media: lo ha detto l’ultima indagine Iea 2011 in lettura (Pirls, Progress in international reading literacy study) e in matematica e scienze (Timss, Trends in international mathematics and science study). Occorre però chiedersi se di fronte ai dati non eccelsi dell’Italia sui banchi, il concorso, quello di cui oggi si svolge la seconda giornata di quiz preselettivi, non sia un’occasione mancata. Soprattutto per quanto riguarda chi dovrà insegnare nella scuola media. Parla Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli.


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Cosa ci dicono i dati Timss e Pirls 2011?

Confermano quello che già sapevamo dal 2007. Abbiamo un buon risultato alla fine del ciclo della scuola primaria, e poi una brusca discesa nella secondaria di I grado. Dalle nostre ricerche sappiamo  che è largamente imputabile a quello che succede nella scuola media piuttosto che nella scuola elementare.


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Perché nel progredire del percorso di studi i dati peggiorano?

È il risultato dell’interazione di diversi fattori. In primo luogo l’adolescenza è l’età in assoluto più complicata. Poi – ed è tipico dell’Italia – ad un modello di scuola accogliente e inclusivo qual è quello delle elementari, si contrappone un modello segmentato per discipline; non c’è più il maestro o la maestra come figura prevalente di riferimento; viene meno una programmazione comune dell’insegnamento; prevale la lezione frontale. Nel complesso, è un tipo di scuola che non è adatto a quell’età. Se a ciò aggiungiamo che nella scuola media ci sono i docenti più anziani in assoluto, abbiamo una serie di elementi i quali messi insieme danno un risultato che non va bene.


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Non abbiamo i risultati della Sud Corea, che si trova in testa a quasi tutte le tabelle Iea, ma siamo complessivamente al di sopra dei 500 punti di benchmark.

È vero, ma occorre tener presente che le rilevazioni Iea perdono alcuni paesi molto importanti, come Germania e Francia, invece inclusi in Ocse-Pisa, che rappresentano un nostro abituale termine di paragone. E il confronto coi paesi Ocse dimostra che noi, alle elementari, siamo un po’ sopra la media dei paesi avanzati, mentre quattro anni dopo siamo puntualmente sotto. Passiamo nel giro di poco tempo da una posizione ottima ad una insufficiente.


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Però negli ultimi 5-6 anni c’è molta più attenzione alle prove standardizzate: Pisa, Iea, Invalsi. Che ne pensa?

È vero, e questo è senza dubbio un dato positivo. I miglioramenti relativi sono senz’altro da attribuire al lavoro fatto in proposito dai docenti e al fatto che gli studenti sono più esercitati e più aperti a prove di questo tipo, che fino a non molto tempo fa erano viste come un corpo estraneo invece che come un importante strumento di accertamento.

Però quel tipo di prove è ancora osteggiato da una minoranza rumorosa. Non si può tornare indietro?

Speriamo di no. Se lei mi chiede come gioco a calcio, le direi che sono da nazionale, peccato che non sia stato mai convocato.


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Cosa intende dire?

Che l’autovalutazione non basta. Diversamente non ci resterebbe che attenerci ai voti dell’esame di Stato, con il piccolo problema della brutta sorpresa che viene dai 100 degli studenti del sud. Ecco perché le prove standardizzate sono fondamentali.

Secondo lei in che modo gli esiti di queste prove riaprono il tema dei docenti nella scuola media?

La scuola la fanno gli insegnanti, che sono il motore di qualsiasi sistema di apprendimento. Occorre un aggiornamento delle loro competenze, non tanto sotto il lato disciplinare, ma delle metodologie didattiche, che non possono ridursi alla sola lezione frontale. L’altro problema è che troppo spesso l’insegnamento nella scuola media viene visto come un passaggio nella carriera e non come il punto d’approdo. È un peccato, perché insegnare a ragazzi tra gli 11 e i 14 anni è una missione estremamente sfidante. Ci vorrebbero insegnanti dedicati, non solo che posseggano una padronanza delle tecniche per insegnare a ragazzi di quell’età, ma che vedano qui giovani come obiettivo della loro vita professionale.


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Lei ha proposto di ridurre gli insegnamenti ad un nocciolo duro fondamentale. Perché?

Perché nella secondaria di I grado c’è uno squadernamento di materie forse eccessivo. C’è chi sostiene che anche all’interno delle singole materie ci si dovrebbe concentrare su poche cose; di questo non sono molto convinto. Chiediamoci invece cosa deve sapere uno studente di quell’età: deve poter comprendere e scrivere un testo, usare la logica matematica, saper applicare il metodo scientifico, conoscere una lingua straniera. Materie come musica, educazione fisica, educazione artistica non sono meno importanti per la la formazione della persona, ma occorre chiedersi se rispondono a questo obiettivo.

Dove le mettiamo?

Le facciamo nel pomeriggio. Organizzando diversamente il tempo scuola.

Bisognerebbe stare a scuola di più. Ma fa bene?

Occorre immaginare una scuola strutturata diversamente da quella del mattino, a prevalenza di lezione frontale. Una scuola dedicata al potenziamento o al sostegno, rispettivamente per chi ha spiccate predisposizioni per la materia e per per chi ha difficoltà; a quelle attività importanti dal punto di vista educativo come arte, musica, sport, da svolgere dentro la scuola, che a quell’età è un luogo importante di insegnamento ma anche di socializzazione. Tutti cambiamenti che presuppongono la personalizzazione dell’insegnamento, un adeguamento alle caratteristche e alla personalità di chi impara considerato nella sua individualità.

Ma questa personalizzazione è raggiungibile senza una riforma sistemica? Possiamo farla con ciò che abbiamo?

Alcune regole attuali dobbiamo cambiarle, questo è sicuro. Difficile che un insegnante possa farla se ha, da solo, sempre di fronte quei 25 alunni. Però, se si va verso un lavoro programmato e condiviso, sfruttando appieno e in modo nuovo l’organico funzionale, molto si può fare. Lo dimostra quello che si sta facendo in diverse scuole.

Ieri e oggi migliaia di aspiranti docenti si sono seduti davanti ai pc per fare i test preselettivi del concorso indetto dal ministro Profumo. È un passo avanti nella direzione auspicata?

Rispetto al ripescaggio dalle graduatorie, il concorso è un grande passo avanti e ha fatto bene il ministro a spingere su questa strada. È vero, non è un concorso riservato alle medie, e i vincitori al termine del processo di reclutamento saranno distribuiti sul territorio in tutti gli ordini ai quali possono accedere. In futuro bisognerebbe pensare ad un concorso riservato, centrato non soltanto sulla valutazione delle competenze disciplinari ma sulla capacità di insegnare a ragazzi di 11 e 14 anni. Se un docente non viene da Scienze della formazione primaria o da una buona Ssis, non è preparato sul fronte didattico. È il vecchio baco gentiliano della nostra scuola, per cui se uno sa le cose allora sa anche insegnarle. Non è così. Ma c’è un’ultima riflessione che si lega a quello che stiamo dicendo.

Prego.

La polemica sulle 24 ore è stata un’occasione mancata. Ha oscurato un tema molto importante, quello di una riforma che prima o poi si dovrà fare. Occorre trovare una nuova formula per cui i docenti che vogliono lavorare a tempo pieno, anche 40 ore, possano farlo. Chi è disponibile a restare a scuola − una scuola aperta, dotata di strutture più moderne, in cui rimanere a correggere compiti, fare lezioni supplementari, fare lavoro di programmazione − deve poterlo fare, retribuito in proporzione. Chi vuole, deve poter scegliere. Un fatto è certo: l’attuale sistema non garantisce la qualità della scuola. Ancor meno della scuola media.

 

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