Il tema delle competenze appare essere uno dei nodi decisivi per il futuro della nostra scuola. Su di esso ci si sta finalmente confrontando non più solo a partire da petizioni di principio, tra cui vive il confronto serrato tra sostenitori delle “conoscenze” e sostenitori delle “competenze”.
Al superamento di questa fase ha certamente contribuito l’introduzione del profilo in uscita come riferimento obbligato non solo della scuola di base ma anche di ogni percorso scolastico-formativo secondario. Ma forse più decisiva è stata l’introduzione dell’obbligo di esprimere alla fine dell’anno per ogni allievo due distinti giudizi, uno relativo alle conoscenze e l’altro relativo alle competenze. Profilo in uscita e obbligo di certificazione delle competenze hanno costretto tutti – o almeno quella non piccola parte della scuola che si sente impegnata a svolgere responsabilmente il proprio compito – a misurarsi in modo concreto sulla natura delle competenze e sulla loro possibile collocazione nel quadro del proprio insegnamento, a partire dal rapporto che intercorre tra conoscenze/abilità da un lato, tradizionale oggetto della valutazione conclusiva dell’allievo, e competenze dall’altro, viste prevalentemente come strettamente e logicamente connesse ai singoli insegnamenti impartiti.
Gli scarsi risultati di questo approccio, che considera le competenze varianti “interne” ai differenti insegnamenti disciplinari, obbligano ora la scuola ad allargare il proprio sguardo per arrivare a identificare il rapporto tra conoscenze/abilità e competenze non più alla sola modalità didattica con cui si agisce ma al quadro in cui la scuola si riconosce costituita non solo, e neppure prevalentemente, da una “somma” di insegnamenti, tra loro quasi casualmente accostati.
Come il convegno tenutosi a metà dello scorso febbraio presso l’istituto Cavalieri di Milano a cura di Diesse Lombardia ha documentato, insegnanti e dirigenti si stanno rendendo conto che non c’è risposta adeguata al problema posto dall’ingresso delle competenze nella quotidianità della scuola se non si fa esplicito e consapevole riferimento a due interrogativi: quale finalità ha la scuola per la persona? quale contributo dà la scuola allo sviluppo della società? Le risposte date fino ad ora a queste domande non sono sufficienti: ne è evidente documentazione la (quasi) totale disaffezione degli allievi e la profonda crisi di motivazione che investe gli insegnanti. Queste risposte, infatti, pur esprimendo valori rilevanti (formazione dell’uomo e del cittadino; contrasto alla disuguaglianza sociale; ed anche, più recentemente, l’incremento del capitale umano), non sono in grado di essere accolte e riconosciute dai singoli, allievi e insegnanti, nella vita concreta della scuola e, di conseguenza, non possono essere accolte senza un profondo ripensamento; non sembrano infatti avere un nesso con le effettive condizioni, organizzative e didattiche, dell’insegnamento che, non solo nella scuola secondaria, sembra riconoscere un quasi esclusivo riferimento metodologico e contenutistico alle conoscenze disciplinari.
Riprendere a interrogarsi su come leggere questa situazione per identificare una prospettiva che apra ad un possibile itinerario di cambiamento, è la decisiva, anche se non unica, condizione perché ogni istituzione scolastica possa tornare a dare significato e concretezza (aderenza alla realtà) all’esperienza che i ragazzi (e gli insegnanti) fanno a scuola e, parallelamente, apra a rapporti non solo formali con il contesto in cui insiste.
A quali condizioni le competenze sono in grado di contribuire a questo compito? E perché? Se non vogliamo che la risposta sia ambigua occorre innanzitutto riconoscere che le competenze (in quanto distinte da conoscenze e abilità) trovano una legittima collocazione nella scuola solo se vengono riconosciute come “modalità di comportamento che il soggetto è in grado di assumere in situazione”. Questa, come qualunque altra risposta, deve in ogni caso misurarsi con alcuni nodi che possono essere riferiti a quattro aspetti critici della scuola di oggi.
1. Come riportare al centro della progettazione didattica la consapevolezza che ogni e qualunque insegnamento acquista valore solo se è colto non in se stesso, ma in quanto parte di un “insieme” ordinato (cioè finalizzato) secondo criteri che devono poter essere ri-conosciuti, almeno intuitivamente, anche dallo studente. La condivisione di questo aspetto è la prima e decisiva condizione perché uno studente sia interessato (e non solo incuriosito) dalla proposta dell’insegnante. La domanda del “perché la scuola” deve poter diventare, soprattutto per l’allievo, “perché io a scuola”, domanda questa che non si accontenta di risposte che richiamino genericamente il tema del suo futuro. Ogni risposta, anche la più argomentata, deve sapersi rendere comprensibile (e accettabile) allo studente qui ed ora, nelle condizioni concrete in cui ogni scuola agisce. Occorre inoltre accettare (ed essere sempre pronti a misurarsi con) la difficoltà dell’allievo a riconoscere le risposte offerte nella quotidiana azione didattica.
Il riflettere per competenze rappresenta una grande occasione per rispondere a questo bisogno, mantenendo chiari gli obiettivi “formativi” che la scuola (prima ancora del singolo insegnante) intende far perseguire ai propri allievi.
2. Che le competenze non siano viste come caratteristiche “interne” ai singoli insegnamenti ma che, al contrario, gli insegnamenti rappresentino una modalità specifica attraverso cui si sollecita lo studente ad acquisire competenze. Nella progettazione didattica discipline e competenze non possono mai essere collocate sullo stesso piano: le prime appartengono al mondo della “oggettività” (ciascuna nel suo ambito si autogiustifica), le seconde a quello della “soggettività” (devono essere riconosciute come proprie dal soggetto). Per questo si può parlare solo in un senso molto generale di “didattica per competenze”: sul piano dell’organizzazione dell’insegnamento sono infatti possibili differenti opzioni in relazione alle condizioni specifiche in cui si agisce e agli obbiettivi “conoscitivi” che ci si pone. Le difficoltà a collegare tra loro la valutazione delle conoscenze/abilità e delle competenze, fatta emergere dall’obbligo di esprimere un giudizio finale distinto, mette bene in luce come conoscenze/abilità da un lato e competenze dall’altro si collochino su versanti ben distinti (anche se non separati) dell’apprendimento. Per questo potremo “valutare” conoscenze e abilità ma dovremo “certificare” le competenze.
3. Che la didattica venga letta (e concretamente impostata) secondo un percorso che si sviluppa nel tempo. Le competenze, fortemente sostenute in questo dal “profilo in uscita” previsto dall’attuale normativa, obbligano infatti a dare all’insegnamento un contenuto che valorizzi la dimensione diacronica dell’apprendimento, preoccupazione oggi assente dalle scelte didattiche che privilegiano invece la “sincronia” tra insegnamento e apprendimento. Inoltre le competenze, offrendo al percorso di insegnamento/ apprendimento un riferimento unitario e centrato sull’allievo, facilitano il riconoscimento del rapporto che lega tra loro i differenti contenuti offerti dalla scuola in ragione dell’obiettivo complessivo che l’intero corso frequentato dallo studente si pone e che deve quindi essere riconoscibile e condivisibile dallo studente stesso. In altri termini la “plurisciplinarità” che caratterizza la nostra scuola deve proporsi non come portatrice di informazioni particolari tra loro semplicemente accostate, ma come portatrice di elementi che si compongono in un quadro leggibile a partire da una domanda riconosciuta dal soggetto che apprende.
4. Che le forme della collegialità vengano riviste, rendendole adeguate alla nuova prospettiva in cui ogni insegnamento si colloca. Le prospettive indicate nei punti precedenti richiedono l’adeguamento anche delle forme organizzative proprie della scuola. Tra queste, prima di ogni altra, la modalità con cui si esercita la collegialità che deve essere in grado di favorire il confronto tra i diversi docenti in quanto co-responsabili di un gruppo-classe e che, a partire da essa, deve quindi rappresentare il riferimento primario sia nel momento della organizzazione della proposta didattica sia nel momento della valutazione. Ciò richiede che le singole proposte vengano viste come parte di quel percorso pluriennale, lungo e complesso, su cui gli allievi sono impegnati e di cui la scuola (e quindi gli insegnanti stessi) è formalmente responsabile. Solo l’introduzione stabile di una modalità di lavoro collegiale – che potremmo chiamare “consiglio di indirizzo” – può dare ordine e sostegno a questo lavoro pluridisciplinare, considerato nella sua interezza e in vista della effettiva crescita degli allievi.