SCUOLA/ Andare ad Harvard o fare l’idraulico? Ecco perché noi scegliamo male

- Gianni Zen

La dichiarazione del sindaco di New York, Michael Bloomberg: “Meglio fare l’idraulico che andare ad Harvard” è una provocazione seria e deve far riflettere. GIANNI ZEN

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Le provocazioni valgono se mirano a scuotere le coscienze da paradigmi e certezze che hanno fatto il loro tempo. Ma non possono diventare un modo per evitare le vere criticità del nostro tempo. Quelle che dovrebbero avere a cuore, anzitutto, le vere domande che, come un fiume carsico, stanno accompagnando i giovani di tutto il mondo: quale speranza di futuro, quali reali opportunità di lavoro, quindi di vita, noi siamo in grado di offrire. Cioè quei “pensieri lunghi” capaci di orientare le scelte e le opportunità di vita, secondo valori e significati non meramente riducibili al consumo quotidiano, ai vari utilitarismi del giorno per giorno.

Sta facendo, in questo senso, molto discutere l’uscita del sindaco di New York, Michael Bloomberg: “Meglio fare l’idraulico che andare ad Harvard”. Con reazioni e polemiche di varia natura. Anche perché la sortita del sindaco viene accompagnata da considerazioni tutt’altro che scontate: “Le persone di medie capacità devono puntare sul lavoro manuale”. Quasi un revival di vecchi pregiudizi, se ci limitiamo alla battuta.

Chi stabilisce, ad esempio, se un giovane è dotato di “medie capacità”, visto che le valutazioni che noi adottiamo solitamente si limitano alla sola logica “stimolo-risposta”? Per cui, se le risposte sono relative agli stimoli, quanti talenti restano bruciati, o nascosti sottoterra, solo perché nessuno ha saputo valorizzarli? La scuola e l’università, ad esempio, inseguono il modello dello studente “intelligente” o quello dello studente “diligente”? Cosa implica il continuo richiamo al “merito”?

La scuola media italiana, per dirla tutta, quando orienta gli studenti alla scelta delle superiori si limita ai “consigli”. Ma non tutte le famiglie accolgono questi “consigli”: in provincia di Vicenza siamo al 60 per cento. Per questo motivo qualcuno, come è in altri Paesi, vorrebbe vincolare l’orientamento a dei test, come già alcune facoltà universitarie. È l’unico modo per prevenire la dispersione e le lauree senza sbocchi occupazionali?

Se la disoccupazione giovanile, in altri termini, in Germania è al 7 per cento ed in Italia al 38 per cento, non dipenderà forse dal fatto che è ancora assente da noi quella – detta brutalmente – “pre-selezione”, sulla base di “prove oggettive”, che dovrebbe aiutare i giovani a prevenire la dispersione?

Come si vede, la battuta di Bloomberg ci porta molto lontano. Una presa di posizione, dunque, che va accolta se contribuisce alla reale comprensione delle dinamiche dell’orientamento scolastico ed universitario. Ma una battuta, dall’altro, che rischia di banalizzare le questioni essenziali: la valutazione formativa ed orientante, il dialogo finalizzato alla scoperta dei talenti e delle attitudini, lo studio di concrete proposte formative non più vincolate ai nozionismi e alle mere logiche direttive.

Noi, in poche parole, dobbiamo aiutare i giovani a trovare la “loro” strada nella vita. Tenendo conto delle reali opportunità, ma riconoscendo, al contempo, pari dignità alle diverse forme di “intelligenza”, pari dignità ai diversi percorsi scolastici, pari dignità degli sbocchi occupazionali. La provocazione del sindaco, da questo punto di vista, è positiva, appunto per la pari dignità. Per quanto riguarda poi le reali opportunità occupazionali, lo sappiamo tutti che, nonostante la crisi, mancano alcune figure professionali tra le disponibilità odierne, come hanno più volte denunciato le associazioni di categoria.

Altri rilievi, ben conosciuti, meritano attenzione: i 10 impieghi più richiesti nel 2010 non esistevano nel 2004.

Il che significa che oggi formiamo studenti per molti profili occupazionali che ancora non esistono, con tecnologie che non sono state ancora inventate, per risolvere problemi che ancora non conosciamo. La filiera formativa, dunque, va ripensata oltre la cornice degli ordinamenti e delle riforme di sistema. Ma conosciamo le resistenze che persistono nell’ordinario lavoro didattico.

Il ministero del lavoro americano stima che uno studente di oggi dovrebbe sapere che, prima di compiere 38 anni, avrà fatto da 10 a 14 lavori. Una flessibilità a tutto tondo, centrata sul merito, sull’energia positiva personale, sulle aspirazioni. Riusciremo a formare giovani, a dare loro una mano in questi termini? Le stime sui Neet, cioè sui giovani che hanno perso questa speranza, ci dovrebbero far riflettere oltre le solite retoriche sul “diritto al lavoro”.

Formare un giovane a scelte consapevoli oggi significa seguire altri parametri. Pensiamo qui al progressivo schiacciamento spazio-tempo, dovuto al dominio delle nuove tecnologie, col conseguente moltiplicarsi di sempre nuove informazioni: che si tratti di un ingegnere o di un idraulico, sappiamo bene che il continuo aggiornamento, secondo relative modalità e tempistiche, è l’unica vera costante che li accompagnerà nella vita.

La velocità, dunque, che stiamo vivendo (o subendo?) ci sta dicendo che il totale delle nuove informazioni raddoppia ogni due anni. Per gli studenti, ad esempio, che iniziano un corso di studi tecnici all’università ciò significa che la metà di ciò che imparano al primo anno sarà superato al terzo anno, in termini di applicazioni e di contesti.

Quale scelta, dunque, consigliare ai giovani di oggi? Di seguire i propri talenti, le proprie attitudini, di coltivare una passione, non identificandosi troppo con la stessa professione prescelta, visti i continui rivolgimenti, ma mantenendo sempre “pensieri divergenti”, aperti a complessità che rimandano al senso stesso della vita. Perché l’uomo si realizza (anche) nel lavoro, ma “non di solo pane vive l’uomo”. Un senso della vita, dunque, oltre le stesse scelte ed opportunità.

Resta il grande problema: se il nostro sistema formativo, scolastico ed universitario, è oggi in grado di rappresentare il migliore terreno possibile, per i nostri ragazzi, per i loro talenti, attitudini, domande di senso. Intorno a questi quesiti, ce lo dobbiamo dire, non è mai stata fatta una concreta riflessione in termini di verifica dei risultati. Si è sempre preferito nascondersi dietro l’autoreferenza, il nostro male endemico.





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