1. Il 23 maggio scorso a Roma, in occasione dell’Assemblea generale di Confindustria, il presidente Squinzi si è anche occupato di scuola. Dopo aver affrontato le emergenze industriali e passato in rassegna le richieste al governo ed alla politica, percorrendo tutti i settori pubblici dove necessitano riforme e cambiamenti, giunge alla fine dell’elenco a parlare di istruzione e di scuola. Un po’ come quando il quotidiano di Confindustria, nell’ultima e penultima pagina, si occupa di scuola.
Sul tema, Squinzi riprende un dato comune ricordando che “il capitale di conoscenza accumulato in Italia attraverso l’istruzione è sensibilmente inferiore a quello dei nostri concorrenti europei, degli Stati Uniti e di molti paesi emergenti”. Rispetto alle cause di questo ritardo si limita a segnalare giustamente che “il conto della cattiva istruzione non lo pagano i cattivi docenti, ma i nostri giovani. L’egualitarismo di facciata, il dibattito manicheo e il sistematico pregiudizio nell’ignorare la domanda di competenze del sistema produttivo sono ormai anacronismo puro”. La delusione arriva quando passa a impegni o proposte, sostenendo che “dobbiamo migliorare il nostro sistema educativo e aumentare l’offerta di tecnici diplomati e laureati, in materie scientifiche in primo luogo”. Immediatamente dopo sembrerebbe tirare in ballo una responsabilità diretta del mondo dell’impresa, purtroppo subito indirizzata al di fuori di esso, sostenendo che “noi per primi dobbiamo contribuire a cambiare questi atteggiamenti con una visione e un progetto non rituali sulla scuola e sull’educazione, all’altezza dei tempi e di un mondo che diventa più grande, mobile e veloce”.
2. Purtroppo, è un’altra occasione persa nel sistema impresa Italia e un’altra conferma (nonostante impegni e buona volontà di qualche isolato esponente nazionale o locale) della bassa sensibilità di quel mondo al problema scuola e istruzione in genere.
In questo, con buoni compagni di strada nella politica, che anche in questi mesi hanno mostrato in vari documenti ufficiali (di entrambi le parti, tranne Movimento 5 Stelle che non ne parla neppure) di non annoverare scuola e istruzione neppure tra le prime famose “otto emergenze” nazionali. E’ curiosa la cosa, soprattutto perché gli uni (imprenditori) e gli altri (politici) da qualche tempo accennano a guardare ai sistemi francese e tedesco con più attenzione. Sistemi dove la disoccupazione giovanile (a partire dai 16 anni), ad esempio in Germania, è al 7% a fronte del 38% dell’Italia.
Purtroppo accade che chi guarda a quei modelli riveli una discreta ignoranza del fatto che essi debbono molta delle loro fortune economiche ad un sistema di istruzione e formazione al lavoro molto avanzato, con diretta e concreta implicazione (cioè assunzione diretta di responsabilità) degli imprenditori nell’organizzazione del sistema istruzione, specie laddove è finalizzata alla formazione al lavoro, ai mestieri ed alle professioni.
Questo metodo di “chiedere” o “proporre cosa gli altri debbano fare” è molto casereccio. Non a caso anche Mario Monti, “tirando le orecchie” al discorso di Squinzi (Corriere del 24 maggio 2013) sosteneva come sia sacrosanto il concetto, caro agli industriali, del “fate presto” detto ai politici, ma come quelli contemporaneamente dovrebbero dire “facciamo immediatamente”, perché “se da 15 anni l’economia italiana cresce molto meno di quella europea, gran parte delle responsabilità sta a casa delle imprese e dei sindacati”.
3. Con un atteggiamento di seria corresponsabilità, cosa avrebbe invece dovuto dire il presidente di Confindustria (come d’altronde dovrebbero fare anche tutte le associazioni di imprese commerciali, agrarie, bancarie, finanziarie), invece di limitarsi a lamentare mancanza “di offerta di diplomati e laureati, soprattutto nelle materie scientifiche”? Avrebbe dovuto confermare che “immediatamente” il mondo delle imprese avvierà azioni di collaborazione alle difficoltà della scuola. Senza nulla togliere alle urgenze della politica, tutto il mondo delle imprese può, in breve tempo:
A. impegnarsi ad accogliere obbligatoriamente ovunque tutti studenti per tirocini di lavoro, stage in azienda, invece di lasciare ogni anno alle scuole la “mendicanza” di questi posti;
B. in attesa delle agevolazioni dell’apprendistato per giovani dai 16 anni in poi, avviare da subito in tutte le aziende i tirocini formativi temporanei per giovani studenti;
C. contribuire finanziariamente (come avviene in Francia e Germania per legge, in attesa di una legge in Italia) con una quota degli utili aziendali al sistema istruzione con “l’adozione” di scuole tecniche e professionali dove collaborare fattivamente ad un’offerta formativa utile alla vita sociale ed economica dei singoli territori;
D. sottoscrivere presto in tutti i settori merceologici vere e proprie intese nazionali di fattiva collaborazione tra scuole e imprese, dedicando quote di tempo ed energie progettuali a progetti di rilancio della preparazione al mondo del lavoro;
E. avviare con gli istituti scolastici in tutte le regioni Fondazioni per l’istituzione di diplomi di Its (Istruzione Tecnica Superiore) presenti in Germania da oltre 20 anni, in Francia da 15 anni, in Italia nati da due anni e fortemente raccomandati anche dal “Going for Growth”- Rapporto annuale 2013 Ocse. In tutti i Paesi avanzati del mondo la formazione generalista è scelta, al massimo, dal 25% della popolazione studentesca. In Italia al liceo va quasi il 50% degli studenti. In Germania, perfino l’apprendistato conferisce un titolo di studio. E quando la riforma Moratti propose il forte ridimensionamento del liceo, la Confindustria di allora fu tra le forze che si opposero;
F. collaborare ad una legislazione nazionale che traduca le belle parole del fu D.M. 77/2005 (quello Moratti sull’alternanza scuola-lavoro fatto solo di bei principi) in fatti. In Italia nell’anno scolastico 2011/2012 solo il 7,5% della popolazione studentesca ha svolto attività di alternanza;
G. avviare un’azione culturale interna all’associazione affinché piccoli e grandi imprese divengano “fiere” di accogliere giovani in formazione (come accade per l’artigiano o l’imprenditore tedesco).
4. Insomma, il presidente Squinzi avrebbe dovuto impegnare Confindustria non a elaborare un “progetto non rituale sulla scuola e sull’educazione, all’altezza dei tempi” per trasferire poi il progetto sugli altri, ma ad avviare cambiamenti interni del mondo dell’impresa per coinvolgere direttamente le proprie risorse in una “rivoluzione” formativa che, iniziando virtuosamente all’interno del sistema industriale, può così fare proposte e richieste credibili al sistema politico ed al sistema dell’istruzione. Per ora (come d’altronde in quasi tutte le richieste fatte dal presidente Squinzi nel suo discorso) abbiamo solo ascoltato “richieste” ad altri.
Per fortuna che non tutti gli imprenditori sono come l’autore di “Storia della mia gente”, fiero nel raccontare la decisione di vendere la gloriosa azienda tessile pratese di famiglia ai cinesi (e con questa bella trovata prendersi anche un premio letterario). Per fortuna che dalle scuole incontriamo diversi imprenditori che, con sacrifici notevoli, accolgono i giovani a fare esperienze di lavoro. Ma questo avviene, nell’azienda come nella scuola e come si usa in Italia, con un grande “volontariato”: isolati, non sostenuti dalle proprie strutture associative, non aiutati né incentivati da leggi o istituzioni.
Queste riflessioni non tolgono nulla alle serie responsabilità del sistema scuola, di molti dirigenti scolastici, docenti, sindacalisti e funzionari che hanno evitato i cambiamenti necessari in questi anni per affrontare il drammatico e inesorabile distacco della scuola dal mondo del lavoro, della scuola dal mondo reale, distacco che inizia fin dalle elementari, peggiorando nelle medie e acuendosi nelle superiori.