Facilitare i tirocini, l’alternanza scuola-lavoro, l’apprendistato… mai più venticinquenni laureati che non hanno mai lavorato un giorno, una classe dirigente che sappia confrontarsi con tutti i lavori (come il cameriere o il commesso…). Sono ben note le dichiarazioni fatte dal ministro Carrozza a Cernobbio alla vigilia del varo del “Pacchetto scuola, università e ricerca”.
Sui giornali l’intervento del ministro viene descritto come il più applaudito e non ci stupisce: temi come l’alternanza scuola-lavoro, l’importanza di “contaminare” la scuola con il mondo del lavoro sono ormai diversi anni al centro del dibattito culturale del nostro paese e con sempre più consenso.
Il ministro accenna anche al sistema di paesi come la Germania e richiama le scuole e le università a promuovere stage e rapporti stabili con il mondo produttivo.
Dunque un ministro illuminato? Sembrerebbe di sì dopo leggi e decreti che in questi anni hanno introdotto un obbligo scolastico fino al biennio della scuola superiore e alzato l’età di ingresso nel mondo del lavoro a 16 anni; che hanno provocato gravi problemi per gli stage sempre più difficili da realizzare soprattutto per le aziende coinvolte e che ancora rendono difficilmente applicabile un serio percorso di apprendistato.
Seppur approviamo questo invito a cambiare mentalità nei confronti del lavoro, alcune “dimenticanze” nelle parole del ministro stridono non poco.
Anzitutto si parla di classe dirigente dando di fatto per scontato (almeno leggendo i diversi commenti della stampa) un unico percorso: liceo più università; percorso che dovrebbe essere “annaffiato” da esperienze di lavoro come quelle, appunto, del cameriere e del commesso. Ma si può parlare così di vera alternanza scuola-lavoro? Cioè di un sistema realmente connesso al mondo aziendale con rapporti stabili e non solo per gli stage, ma anche per la programmazione e la realizzazione dei percorsi scolastici magari con la presenza in cattedra di professionisti e “uomini del lavoro” oltre ai “docenti di professione”?
Si parla di Germania (e qualcuno anche di Svizzera) dimenticando che questi paesi hanno sistemi scolastici “duali”, dove la cosiddetta classe dirigente si forma anche attraverso le scuole professionali che portano all’acquisizione sul campo di una qualifica/diploma e la possibilità di accedere ai percorsi universitari. Insomma nessun accenno alla formazione professionale e neanche all’istruzione tecnica superiore seppure di diretta emanazione del ministero.
Ed ecco la seconda dimenticanza: la classe dirigente del nostro paese, quella dei grandi imprenditori e di cui oggi il ministro lamenta l’assenza, nella stragrande maggioranza dei casi non arrivava da percorsi liceali, ma dall’istruzione tecnica e professionale se non addirittura dalla “gavetta” del lavoro (quello vero!).
Due dimenticanze gravi perché in un momento di profonda crisi occorre saper guardare alla nostra tradizione di eccellenza nel campo del lavoro e a ciò che già c’è e che invece non solo non viene mai menzionato nei luoghi “deputati” a formare la classe dirigente del domani, ma che manifesta da anni segni di grave sofferenza. Da un parte per la mancanza normativa: nella maggioranza delle regioni italiane è impossibile trovare un percorso di qualifica per elettricista, idraulico, orefice…; dall’altra perché gli istituti di formazione sono costretti, loro sì, a una riduzione costante dei costi, a classi sempre più numerose e, cosa più grave, all’impossibilità di rispondere a tutti i ragazzi che vogliono proseguire in quarta e in quinta, cioè proprio quei giovani che, già consegnati dalla terza media a una probabile dispersione scolastica, sono riusciti non solo a raggiungere una qualifica, ma ad essere idonei per proseguire fino all’esame di maturità (e questo è possibile solo in Lombardia).
Dire che questi giovani possano diventare parte della classe dirigente del domani evidentemente in Italia è ancora uno scandalo.
Ingegneri che, per fare solo un esempio, abbiano frequentato durante gli anni delle superiori i cantieri edili grazie a stage di un paio di mesi per ogni annualità e raggiunto qualifiche base del settore (serramentista, elettricista, decoratore, etc) non rappresenterebbero una classe dirigente di professionisti più innovativa e dinamica e un reale esempio di alternanza scuola-lavoro? Invitare i giovani laureandi a fare il commesso può strappare un applauso, ma non certo cambiare la mentalità della scuola.
Siamo all’inizio di un nuovo anno scolastico e incontrare le famiglie dei ragazzi che iniziano i percorsi di formazione professionale, riceverne gli applausi sinceri (anche se non siamo a Cernobbio) per come si desidera accogliere i loro figli, dice che c’è una fetta d’Italia che in questo cambiamento ci crede e ripone una speranza per i propri ragazzi e quindi per tutti.
Riuscirà finalmente la politica a vedere questi tentativi come investimenti sul futuro già in atto e quindi da valorizzare concretamente?
Noi operatori della formazione professionale, pur con tutte le sue fatiche e contraddizioni, continuiamo nel nostro lavoro quotidiano con l’entusiasmo di sempre, contagiati da quello dei ragazzi che frequentano i nostri percorsi; questo non ci esime da un giudizio anche critico su proclami a volte tanto giusti quanto lontani dalla realtà.