Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea. Cinque lezioni (Itaca, 2014): è questo il titolo di un volume collettaneo curato da Marco Ferrari e Gian Paolo Terravecchia. L’origine di questo lavoro è chiaramente esposta dallo stesso Ferrari nella sua Prefazione, qui mi limito all’essenziale: il libro raccoglie le relazioni (e in due casi anche i dialoghi) che i professori Carmine Di Martino (Università degli Studi di Milano), Costantino Esposito (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro), Giambattista Formica (Pontifica Università Urbaniana), Giovanni Maddalena (Università degli Studi del Molise) e Lubomir Zak (Pontificia Università Lateranense) hanno tenuto nel corso dell’anno scolastico 2012/2013 ai docenti di storia e filosofia delle scuole secondarie superiori impegnati nell’affascinante esperienza di ricerca e conoscenza delle Botteghe di Filosofia.
Agli occhi di chi scrive questo volume ha un grande pregio. Esso non è solo un’ottima introduzione, chiara sul piano concettuale e rigorosa dal punto di vista dell’esposizione (non a caso gli autori sono tutti eccellenti specialisti degli argomenti proposti), ad alcuni dei principali filosofi e delle maggiori correnti di pensiero che caratterizzano un secolo così complesso come il Novecento, ma è soprattutto l’occasione di affrontare in maniera profondamente seria alcuni nodi filosofici ineludibili perché drammaticamente attuali: questo volume è, in sintesi, una grande occasione per riflettere, facendo filosofia, cioè entrando in un dialogo critico e serrato con i pensatori esaminati.
Perciò, ben lungi dall’essere una recensione del libro, le considerazioni che seguiranno, volte a introdurre alcune delle principali questioni messe in gioco dagli autori, vogliono esserne semplicemente un invito alla lettura.
Nel suo contributo La questione aperta del nichilismo da Nietzsche a Heidegger (e oltre) (pp. 9-37) Costantino Esposito mette in luce un’immagine di Nietzsche un po’ diversa da quella che normalmente si dà di questo autore. Tradizionalmente il suo grande successo si deve alla sua fama di pensatore libertario e decostruttore della violenta metafisica platonico-cristiana. Ma quest’immagine si fonda sulle risposte che costituiscono la filosofia di Nietzsche, mentre se, come suggerisce Esposito, più che le risposte si cercano le domande che animano la riflessione di un autore, allora la prospettiva cambia parecchio.
Dietro la sua patina free e glamour Nietzsche è un uomo assillato dalla domanda sulla verità, sulla consistenza ultima della realtà. Il suo problema è un problema teoretico e conoscitivo: che cosa davvero esiste? In quest’ottica il nichilismo non è solo un’inquietudine emotiva e un’insofferenza all’autorità e ai valori tramandati, ma diventa una vera e propria metafisica: il superuomo con la sua volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’uguale sono il disperato e radicale tentativo di dire che l’uomo non è dato, che la realtà non ha provenienza ma si dà e si fa da sé e in ciò risiede la potenza della sua vita.
La radice del nichilismo contemporaneo (e anche di un certo neorealismo oggi in voga) non è psico-culturale ma metafisica, ma si tratta di una metafisica che si fonda su una concezione che svuota la realtà della sua natura di datità e possibilità per degradarla ad una necessaria ripetitività (l’eterno ritorno dell’uguale). Heidegger coglie acutamente il senso dell’operazione nietzschiana ma non esce da una posizione ultimamente nichilista quando afferma che la promessa che l’essere fa di se stesso è destinata a non compiersi mai perché l’ente, la realtà, è solo sottrazione e mai segno del mistero dell’essere.
Chi invece non si esime dall’indagare le strutture costitutive dell’esperienza nella quale la realtà si manifesta nella sua natura di segno è Edmund Husserl, fondatore della fenomenologia. Nel suo intervento, L’istanza della fenomenologia (pp. 39-76), Carmine Di Martino dimostra che la fenomenologia è, in ultima analisi, una filosofia dell’esperienza intesa come luogo originario e intrascendibile di manifestatività: poiché è nell’esperienza che il mondo si disvela nel suo senso d’essere, il compito della fenomenologia consiste nel mettere in luce, a partire dalla percezione del mondo come “già costituito”, le legalità che caratterizzano quell’atto noetico in cui il mondo svela il suo senso a un io che è appunto costitutivamente aperto ad accoglierlo.
Questa predisposizione dell’uomo a interpretare la realtà come segno è ben illustrata anche da Giovanni Maddalena nel suo saggio Introduzione al pragmatismo americano (pp. 77-98), in particolare quando espone il metodo peirceiano dell’abduzione. L’abduzione è un ragionamento ipotetico che implica il passaggio dal conseguente all’antecedente. L’abduzione comincia sempre con un fenomeno reale sorprendente che funziona come un segno particolare (non simbolico) perché costringe a modificare l’interpretazione precedente di un certo fatto o di un dato oggetto e a non interrompere la ricerca volta a rinvenire tutti gli effetti concepibili che quell’oggetto può avere e che, presi insieme, costituiscono l’inesauribile ricchezza della realtà che il filosofo è chiamato a scoprire.
Anche gli ultimi due saggi del volume esemplificano in modo efficace questa vivacità e dinamicità della ragione umana, capace di volta in volta, di trovare metodi sempre più adeguati nella conoscenza della realtà. Nel contributo di Giambattista Formica, Sulla crisi dell’epistéme nella scienza (pp. 99-120), ciò è dimostrato per via negativa, ossia attraverso una lucida disamina delle ragioni intrinseche che mettono in crisi l’assoluta certezza della razionalità scientifica tanto nell’ambito della matematica quanto in quello della fisica sperimentale. Ciò porta l’autore a concludere che la razionalità scientifica sia da riconquistare attraverso un suo ripensamento nel più ampio contesto dei dinamismi originari della ragione umana.
In questa prospettiva non poteva esserci chiusura migliore del contributo di Lubomir Zak dal titolo “Ho contemplato il mondo come un insieme”. Introduzione al pensiero complesso di Pavel A. Florenskij (pp. 121-156). Florenskij fu infatti un uomo di straordinaria poliedricità, capace di coniugare in se la passione per la scienza, la musica, la letteratura, la teologia e la filosofia. Il realismo di Florenskij non ha nulla di ingenuo o di mistico; egli infatti riconosce l’antinomicità del reale dovuta al funzionamento bi-centrico della ragione umana la quale poggia su due leggi basilari ma in contraddizione tra loro: da un lato la legge di identità che tende a ritagliare concettualmente un oggetto di conoscenza dagli altri per definirlo come un entità in se chiusa, dall’altro la legge di ragion sufficiente che definisce un oggetto a partire dal suo legame con gli altri. Ora, poiché la ragione ha bisogno di entrambe queste due norme ma non può servirsene contemporaneamente, occorre un ulteriore elemento di sintesi: per Florenskij questo elemento è il cuore che diventa la categoria gnoseologica in cui avviene il superamento della molteplicità nell’unità. Questa unità è per lui la Sofia divina, la quale si sottomette alle strette dimensioni spazio-temporali della sua stessa creazione per consentire alla ragione umana di superare la sua antinomicità costitutiva e consentirle di contemplare unitariamente la complessità del mondo.