Imparare facendo. È questo l’assunto sostenuto da qualsiasi buona pedagogia e regolato da tutti i sistemi scolastici nazionali in Europa: offrire, cioè, al giovane in formazione l’opportunità di integrare, durante il triennio della scuola secondaria di II grado, l’apprendimento delle competenze disciplinari a scuola con quelle più professionalizzanti nel mondo del lavoro. Una modalità concreta ed importante sostenuta dai dirigenti scolastici di Disal e da docenti di molte scuole superiori italiane per creare un raccordo tra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro non solo auspicato dalle imprese italiane ed atteso dagli studenti (molto più disponibili ad implicarsi nel sapere pratico di quanto si creda!), ma, soprattutto, previsto dalle norme sul Riordino del sistema scolastico e quelle sul tema scuola lavoro.
Il testo del Decreto Interministeriale (Istruzione, Politiche sociali e Lavoro, Finanze) sul lavoro, reso pubblico in questi giorni concernente il “programma sperimentale per lo svolgimento di periodi di formazione in azienda per gli studenti degli ultimi due anni delle scuole secondarie di secondo grado per il triennio 2014-2016“, programma previsto dalla Legge 128/2013 di conversione del D.L. 104/13 (art. 8 bis comma 2), appare concepito, invece, per indebolire e rendere di fatto impraticabili le esperienze di alternanza scuola-lavoro.
Il decreto sembra scritto da chi non conosce pressoché nulla di come stiano realmente le cose nelle scuole e nelle aziende: già gli ultimi monitoraggi – realizzati da quella che fu un tempo la Direzione per l’Istruzione tecnica e professionale – sulla diffusione e qualità delle esperienze scolastiche di Alternanza scuola-lavoro dimostrano che esse sono fortemente diminuite a causa di difficoltà organizzative spesso insormontabili dovute all’assenza di norme che regolano il rapporto scuola-lavoro e dalla forte diminuzione dei contributi statali alle scuole a sostegno di tali iniziative (circa il 70% in meno in 4 anni).
Forse sarebbe bastato trarre qualche spunto dai modelli attuati, non tanto in Germania, dove vige addirittura un sistema duale di integrazione scuola-lavoro molto efficace, ma almeno in Francia, Portogallo, Danimarca, Olanda, per limitarsi all’ovest dell’Europa. Niente di tutto ciò.
Lo schema di decreto “contempla la stipulazione di contratti di apprendistato, con oneri a carico delle imprese interessate e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica“: in particolare regola la tipologia ed i requisiti delle imprese che potranno partecipare al programma; del contenuto delle convenzioni tra le istituzioni scolastiche e le imprese; dei diritti degli studenti (e i doveri?); dell’organizzazione didattica dei percorsi; dei tutor scolastici ed aziendali; della certificazione e riconoscimento dei crediti formativi acquisiti dal periodo di apprendistato.
Ma pone, nell’articolato del testo, una serie di ostacoli nuovi e, in qualche caso, insormontabili. Oppure, anziché innovare, confonde.
Per esempio il testo non dice nulla sulle necessarie coerenze tra curricolo scolastico e percorsi sperimentali: questi sostituiranno le normali attività laboratoriali svolte a scuola? che fine faranno le esperienze di alternanza scuola-lavoro previste dalla norma vigente, di cui non c’è addirittura alcun riferimento nel Decreto? non se ne prevede più l’inserimento nel curricolo formativo dello studente? l’utilizzo dell’esperienza di apprendistato nella terza prova dell’esame di maturità a quale disciplina farà riferimento? riguarderà tutta la classe (negli istituti professionali e tecnici anche gli altri alunni fanno stage) o solo gli studenti che faranno il contratto di apprendistato?
Il decreto, poi, accenna all’utilizzo delle quote di flessibilità – previste dai vigenti Regolamenti di riordino dei tecnici e professionali – a disposizione degli istituti come ulteriori articolazioni delle aree di indirizzo (D.I. 24/04/2012 e D.I. 7/10/2013), ma ne vincola l’utilizzo al “limite delle dotazioni organiche, senza determinare esuberi di personale”, rendendone di fatto quasi impraticabile l’applicazione.
Nulla viene detto, ancora, nonostante lo preveda il comma 2 dell’art. 8-bis della legge di riferimento, sul numero minimo di attività curricolari che lo studente deve seguire: un alunno di un istituto tecnico o professionale potrebbe andare, quindi, durante l’anno scolastico, in contratto di apprendistato anche per 5 o 6 mesi? ma, allora, cambieranno anche le quote di organico docenti assegnate alle scuole in relazione al progetto di alternanza?
Nel decreto non è chiara neppure la doppia figura dello studente e dell’apprendista, quando è noto il divieto nei contratti di apprendistato che chi inizia a lavorare frequenti corsi di studio a ordinamento secondario: attualmente le norme sull’apprendistato prevedono che possano essere assunti con tale contratto di terzo livello solo giovani tra i diciotto e i ventinove anni, mentre si sa che nelle classi quarte accedono anche studenti che hanno 17 anni.
Dal punto di vista delle aziende aumentano, poi, considerevolmente, nella bozza di decreto, anziché semplificarsi, i vincoli, gli obblighi, le prescrizioni, i documenti che esse dovranno produrre senza riceverne nulla in cambio, dando per scontata, nei fatti, una loro presunta disponibilità a svolgere una sorta di “volontariato economico”, pur sapendo le difficoltà finanziarie ed organizzative in cui, oggi, navigano le stesse imprese.
Senza voler dir nulla di più circa il fatto che tutto il decreto è, guarda caso, ispirato al classico centralismo statale impegnando addirittura tre ministeri a stipulare il “protocollo di intesa con le aziende” (uno per ciascuna impresa italiana?), tagliando fuori in modo clamoroso l’altro soggetto implicato che sono le Regioni e, soprattutto, dimenticando, fatto grave, la soggettività giuridica che il titolo V della Costituzione riconosce alle singole istituzioni scolastiche.
Dulcis in fundo: ad ogni capoverso del decreto sul lavoro si ribadisce il senza oneri per la finanza pubblica (a ciò è dedicato l’intero art. 10) che, deresponsabilizzando così il decisore politico, rende scatola vuota ogni intento innovativo, lascia le scuole e le imprese con un pugno di mosche (e senza soldi) e mortifica la disponibilità dei giovani ad implicarsi nelle esperienze di lavoro durante il periodo di scuola.
Il ministro Profumo aveva almeno vagliato la possibilità (come già accaduto da due anni in Spagna, dove la legge è stata introdotta) di attuare anche in Italia un modello duale simile a quello tedesco.
Un dubbio finale: non è che gli unici veri “apprendisti” alle prime armi siano rimasti proprio gli estensori (politici, sindacalisti e ministeriali) che hanno concepito il decreto sul lavoro?
In tempi in cui si sta rilanciando la nuova Europa importare dai modelli di apprendistato di Spagna e Germania non sarebbe stato più semplice?