Cosa deve essere oggi un concorso per dirigenti scolastici se si vuole che risponda ai veri bisogni della scuola e non si impantani in ricorsi e anomalie senza fine come è accaduto nell’ultima procedura di reclutamento e non solo?
Per rispondere adeguatamente a questa domanda bisogna intersecare due variabili di riflessione: la prima è relativa alle procedure concorsuali di selezione dei “nuovi” dirigenti scolastici da definire sulla base delle esperienze pregresse cercando di imparare dagli “errori”, ma l’altra, evidentemente più importante, è definire figura, compiti e responsabilità del dirigente scolastico. Il tema è particolarmente “caldo” nel dibattito pubblico di quest’ultimo periodo; infatti, alla pubblicazione, ormai prossima, del nuovo bando tanto atteso sulla dirigenza scolastica, fanno da contraltare riflessioni e proposte emendative, di sindacati, associazioni professionali ed esperti del settore in ordine al testo base dell’art. 10 del ddl 1577, su cui si è avviata la discussione in Parlamento. Quest’ultimo rappresenta una scommessa non da poco in questo particolare momento, allorché la sfida lanciata dalla consultazione pubblica su La Buona Scuola ha prodotto un fermento di proposte e di riflessioni che partono dalla scuola reale, quella delle classi, dei loro studenti, e delle professionalità in servizio nelle istituzioni scolastiche.
Gli ultimi concorsi per la selezione delle nuove leve della dirigenza scolastica italiana, per l’elevato livello di contenzioso che si è generato e il conseguente rallentamento delle stesse procedure concorsuali, postulano un rinnovamento in ordine alle modalità di svolgimento ma, soprattutto, agli obiettivi che la procedura concorsuale deve porsi.
Il rinnovamento (quali prove per verificare quali requisiti professionali), allora, si lega a una riflessione più cogente: quale dirigente e per quale scuola dell’autonomia?
Affrontiamo il primo aspetto. Le modalità di svolgimento degli ultimi concorsi si sono caratterizzate per scarsa selettività, spesso causata da provvedimenti normativi che hanno realizzato larghe “sanatorie” al fine di risolvere un contenzioso notevole determinato, sovente, da imperfezioni formali nei bandi e da errori commessi nella gestione degli step concorsuali, da parte di commissari non sempre esperti e/o formati al compito. Tant’è che oramai (e non solo nelle vicende del reclutamento dei ds) si suol dire che sono i tribunali a determinare il reclutamento nella scuola.
Nondimeno i concorsi a ds si caratterizzano per avere troppi candidati che “ingolfano” le procedure e le rendono difficilmente gestibili. Perché sono “troppi” gli aspiranti dirigenti scolastici? Non solo perché non si garantisce un’adeguata programmazione dei concorsi, ma anche perché il nostro sistema scolastico non è strutturato in modo da poter ricompensare chi pure si impegna nello svolgimento di ruoli intermedi e nell’assunzione di responsabilità condivise, con un minimo riconoscimento che ne qualifichi il merito in qualità e misura (esiste un middle management nelle scuola?)
Ancora: selezioniamo male perché i concorsi sono caricati di troppa teoria. Che significa? Che selezioniamo dirigenti scolastici per svolgere mansioni prevalentemente burocratiche e amministrative, tese a garantire il buon andamento di un sistema complesso. Ma tale sistema non sembra che si ponga nella giusta misura il “problema pedagogico” relativo al raggiungimento degli esiti degli studenti, atteso che prioritariamente si pone il problema relativo ai processi organizzativi e gestionali. Se le ricerche internazionali evidenziano quanto la figura professionale del docente sia il primo fattore che determina la qualità del successo formativo degli studenti di una classe, allo stesso modo la letteratura riconosce al dirigente scolastico e alle sue doti di leadership il merito di incidere/influenzare l’innalzamento degli esiti degli studenti e, quindi, di determinare la portata “qualitativa” di una istituzione scolastica. E, allora, tornando alla nostra prima domanda: qual è l’identità dei dirigenti scolastici e quali compiti professionali devono svolgere?
Mentre il dirigente scolastico della scuola italiana è un ex docente, oberato e perso in meandri di responsabilità, retribuito male e con scarsissimo tempo da destinare alla didattica, a volte dirige due istituzioni scolastiche (quella di titolarità e l’altra in reggenza) oppure una scuola sovradimensionata per numero di utenti, a causa di una razionalizzazione della rete scolastica conseguente solo a logiche di risparmio, ed è tra i più “vecchi” d’Europa, al contrario i suoi compiti professionali sono ancora efficacemente definiti dall’articolo 25 del decreto legislativo 165/2001.
Vale, qui, la pena riportarne qualche stralcio: “Il dirigente scolastico assicura la gestione unitaria dell’istituzione, ne ha la legale rappresentanza, è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio. Nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici, spettano al dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane. In particolare, il dirigente scolastico organizza l’attività scolastica secondo criteri di efficienza e di efficacia formative ed è titolare delle relazioni sindacali. (…) Il dirigente scolastico promuove gli interventi per assicurare la qualità dei processi formativi e la collaborazione delle risorse culturali, professionali, sociali ed economiche del territorio, per l’esercizio della libertà di insegnamento, intesa anche come libertà di ricerca e innovazione metodologica e didattica, per l’esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie e per l’attuazione del diritto all’apprendimento da parte degli alunni. Nell’ambito delle funzioni attribuite alle istituzioni scolastiche, spetta al dirigente l’adozione dei provvedimenti di gestione delle risorse e del personale” (corsivo di chi scrive).
Cosa fare, allora, per assegnare agli studenti della scuola italiana un dirigente scolastico in grado di essere tutto questo? Se la scuola italiana, in un ventennio di sperimentazione dell’autonomia, si è configurata come un segmento atipico della pubblica amministrazione con una finalizzazione specifica della sua mission (istruire e formare generazioni di studenti, in quanto li accoglie, li accompagna, li istruisce, li forma, si fa carico dei loro problemi, li valuta e consegna loro un titolo di studio) con ogni evidenza da questa prospettiva, la scelta di affidare il corso-concorso alla Scuola nazionale della Pubblica amministrazione è suggerita da aspetti di necessità.
Per dirigere una scuola, pubblica amministrazione atipica per l’oggetto delle sue prestazioni e dei suoi obiettivi di servizio, occorre che i dirigenti: sappiano di legge per interpretare le norme e applicarle o per gestire il contenzioso in uno con l’Avvocatura, sappiano di gestione amministrativa per gare e appalti, sappiano di contabilità, sappiano di sicurezza degli ambienti di lavoro. Ovviamente sono capaci di gestire risorse umane e professionali e sanno occuparsi di politica scolastica e formativa. Ma poiché si tratta di rendere competenti generazioni di studenti, occorre anche garantire i presupposti per l’esercizio di una leadership educativa. Perché una scuola non è più una periferia dello Stato ma una istituzione autonoma che “assume il volto di una impresa sociale, fondata su ragioni ideali e al servizio delle persone e delle loro comunità” territoriali e professionali. “Curare e sostenere l’avventura della conoscenza e l’intrinseca dimensione educativa è il cuore del compito direttivo nelle scuole, al cui servizio devono concorrere competenze ‘imprenditive’ nell’erogazione di un servizio sociale”. (Dal Manifesto Disal sulla dirigenza scolastica).
Pertanto, garantire una cadenza regolare dei processi di selezione o puntare sulla competenza dei selezionatori o sulla correttezza amministrativa dei bandi e delle procedure, non è altro che una sommatoria di corollari marginali ad una impostazione culturale che “pretende” la presenza di due pilastri: i “nuovi” dirigenti scolastici dovranno essere esperti nella valutazione del sistema e delle persone e devono effettuare un adeguato apprendistato in situazione.
Se il dirigente scolastico è, per necessità, il motore di una buona scuola che voglia autovalutarsi e amalgamarsi al contesto per rispondere alle esigenze dei suoi studenti e se quello italiano è, tra i sistemi scolastici, a variabilità elevata, non solo tra scuole, ma anche tra classi della stessa scuola, non può che esservi al timone un dirigente scolastico che sappia di valutazione. Meglio: che sia esperto di processi di valutazione per utilizzare questi stessi processi al servizio degli esiti di apprendimento dei suoi studenti. E questo dirigente scolastico non sia solo: il suo middle management abbia la stessa preparazione professionale in merito alla valutazione. Investire sulla valutazione per migliorare l’autonomia, come si è finalmente deciso di fare con l’implementazione del Servizio Nazionale di Valutazione.
E passiamo all'”apprendistato in situazione”. Mentre nei concorsi passati si è rivelata del tutto marginale la circostanza che la valutazione dei titoli sia avvenuta prima o dopo le prove concorsuali (tra l’altro sarebbe stato preferibile un saggio breve piuttosto che il classico tema di principi pedagogici e problematiche educative), è risultato fondamentale che i “futuri” dirigenti scolastici abbiano svolto, sotto la guida di un dirigente scolastico esperto, dai quattro ai nove mesi di formazione in situazione: questo tempo ha reso distese le fasi dell’apprendimento, ha permesso ai candidati di partecipare a discussioni e confronti ricchi e significativi, di ascoltare testimonianze dal mondo imprenditoriale (dal quale hanno saputo di gestione) e da esperti del mondo della scuola (da cui hanno appreso aspetti peculiari e orizzonti di senso).
I futuri dirigenti hanno imparato anche ad essere comunità di pratica, cosa che ancora li accompagna in tanti aspetti del loro lavoro. Ma, soprattutto, hanno partecipato da “apprendisti dirigenti” alla vita reale di una scuola sotto la guida di dirigenti scolastici esperti, cui furono affidati, che li hanno coinvolti nella preparazione di un collegio docenti, nelle riunioni con lo staff, nella predisposizione del programma annuale e del conto consuntivo, nella visita alle classi, nel controllo dei registri dei docenti, nei colloqui con i genitori, nell’incontro con il sindaco, nella scrittura delle circolari, nei consigli di classe. Solo per fare qualche esempio.
Durante quel tempo, sapientemente guidati, gli “apprendisti” hanno posto domande sorte dalla necessità di ottenere risposte che l’aula non avrebbe potuto far emergere. Ha posto i futuri dirigenti di fronte a problemi da risolvere con rapidità, individuando opportune strategie e con prospettive da segnare sia per la scuola che per i giovani ragazzi e con orizzonti da scrutare. Tra le anticipazioni sul nuovo bando quest’ultimo aspetto risulta un punto fondativo. Ci convince, ma non basta. Per rendere efficace questo percorso concorsuale concorrono, in egual misura alle procedure (alla correttezza delle procedure), le professionalità che saranno individuate per attuarle. I tecnici e i tutor di tirocinio soprattutto. Che devono sapere di scuola perché vivono la scuola. Perché hanno addosso l’odore delle classi e delle storie che vi accadono. Che i direttori degli Usr sappiano individuarli tra le pieghe di un’arcigna burocrazia. Su questo il decisore e l’attuatore politico devono puntare. Per la scuola.