SCUOLA/ Paritarie, è stato bello

- Silvia Ballabio

La Buona Scuola avanza e travolge tutto con l'onda del cambiamento. Di certo anche un pezzo di scuola italiana che ne fa spuriamente parte: quella paritaria. SILVIA BALLABIO

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Fasi A e B concluse, alternanza scuola-lavoro e stage che s’hanno da fare, così come il temuto comitato di valutazione interna, bonus del docente arrivato a chi di diritto con l’ultimo cedolino, fase C in febbrile (si dice) lavorazione nelle mani dei funzionari del Miur, insomma la Buona Scuola avanza e travolge tutto e tutti con l’onda lunga del cambiamento. 

Di certo l’onda rischia di travolgere un pezzo di scuola italiana che ne fa spuriamente parte: quella paritaria, che sta subendo da sempre la parità solo giuridica (rubando un motto alla storia, no education without parents’ money) e l’agguerrita e legittima competizione delle scuole statali, anch’esse alle prese con l’emorragia delle iscrizioni, ma per evitare la perdita di cattedre e la migrazione verso sedi meno gradite e non certo la perdita del posto di lavoro, con conseguenti affastellarsi di progetti, siano essi Ptof-oriented (cioè ideati nel nuovo Piano triennale dell’offerta formativa) o pre-esistenti all’onda renziana della Buona Scuola. 

A tutto questo si aggiungerà l’onda (che potrebbe essere travolgente) dell’ultima fase delle immissioni per il personale del potenziamento, previsto per circa 55mila unità e, si giura, non solo per le supplenze, ma per una progettualità effettiva delle scuole a partire da quanto da esse indicato. Una bufala? Lo dirà la storia.

Tralasciando il problema dello scollamento fra domanda (le scuole e i loro progetti) e offerta (chi è in graduatoria con la sua classe di concorso ed afferenza a una determinata area di potenziamento) nella scuola statale, mi sembra utile sottolineare che il modello progettuale e una conseguente forte qualifica del Pof sono caratteristiche che la buona scuola paritaria hanno a mio parere sempre avuto, perché si tratta di un’impresa. 

Educativa, certo, estremamente sui generis come impresa, in cui il “mercato” è anche l’ansia e la preoccupazione di noi genitori verso i figli, il desiderio (sopito spesso sotto anni di inedia e solitudine) di qualcosa di bello e vero in classe da parte degli studenti, la necessità di una governance oculata da parte degli amministratori dove invece della legge del profitto o spending review (a seconda dei tempi e dei luoghi) si attui la legge dell’investimento e rinnovamento continuo, ed infine la condizione del docente, come, ma forse un po’ più di altri, funambolo fra vocazione e remunerazione. Ma l’anima di una paritaria sta tutta in un Pof o Ptof più ricco, più articolato di quello di una statale? Occorre anche tener conto del  fatto che per la scuola statale reti e progetti piovono a bizzeffe, se paragonate al centellinare delle risorse spesso incerte di molte scuole paritarie  di piccole dimensioni e spesso solo formalmente solidali in varie associazioni, ma in realtà lasciate alle proprie limitate risorse sia umane che finanziarie. 

L’argine alla fine di una piccola o media paritaria non può stare, oggigiorno, nel proliferare di progetti, anche se non possono mancare, e nemmeno in una consociazione di interessi, molto difficile se non impossibile da conseguire; quando si tratta di aziende presenti nello stesso mercato, la prima legge è la competizione, e non l’associazione. Ogni cda è autonomo, a nessuno fa piacere chiudere per far sopravvivere un concorrente, ed anche in presenza di segnali di crisi evidenti occorre notevole lungimiranza ed umiltà nell’apparato della governance per abbandonare progettualità fallite perché vetuste, o semplicemente tardive. L’innovazione non si inventa, o se si inventa in un’estate è uno slogan.

E allora, quale può essere il bastione di Porta Pia da difendere fino allo stremo per una piccola paritaria dagli scarsi mezzi o per una di medie dimensioni  dalle fondamenta traballanti? 

Un intervento di Charles Glenn (Università di Boston) tenutosi due anni fa al convegno “Nuovi insegnanti e nuove scuole che crescono”, frutto dello sforzo coordinato di più associazioni, aveva a tema “Che cosa richiede la libertà di educazione?”. Nella sua lectio magistralis, il professor Glenn si espresse così a proposito della libertà di scelta di una scuola che abbia una mission, un peculiar character: “E’ anche ampiamente dimostrato che gli allievi stessi traggono beneficio dalla frequenza di scuole che hanno una mission chiara e peculiare. Questi benefici effetti non sono limitati a risultati strettamente accademici ma si estendono a qualità di carattere ed impegno civile, come è stato dimostrato parecchi anni fa da una analisi degli atteggiamenti e comportamenti di adulti americani di età compresa fra 24 e 39, che ha analizzato più di 30 variabili di cui è risaputo l’impatto sullo sviluppo, quali la profondità del legame coi propri genitori, la partecipazione religiosa, la razza, e il successo educativo, allo scopo di isolare l’effetto a lungo termine della frequenza di diversi tipi di scuola”.

Ed ancora, parlando della natura di una scuola che sia peculiare, Glenn citava quattro componenti essenziali: “clima”, “cultura”, “ethos” e “carattere”. Nel linguaggio della burocrazia statale, la cosa più vicina a queste caratteristiche è il fallito Pei, il Progetto educativo d’istituto, attualmente solo indicatore del progetto di inclusione degli studenti con disabilità.

Questo a fronte di quanto recentemente riportato da Avvenire lo scorso 30 ottobre: “I fattori concomitanti della crisi economica e del mancato sostegno alla libertà di scelta delle famiglie, hanno portato molti istituti scolastici a chiudere i battenti. (…) Nell’arco degli anni 2012/13 e 2014/15 si sono perse 349 scuole paritarie (dati del Miur) e 429 scuole cattoliche (dati Cssc). La chiusura degli istituti ha fatto diminuire la popolazione scolastica delle paritarie. (…) perdono quasi 38 mila alunni le scuole dell’infanzia (le più consistenti dal punto di vista numerico) con una diminuzione del 3,9 per cento; spariti anche 9.000 alunni nelle elementari (-4,7 per cento); nelle secondarie di primo grado il calo è a due cifre (11 per cento) e raggiunge addirittura il 15 per cento nelle secondarie di secondo grado. E purtroppo non è finita”.  

La fine delle paritarie non avverrà, non almeno a livello sistemico, se, terminato il piano Buona Scuola, il governo, attuale o futuro, metterà in campo la parità reale, e se le scuole stesse si dedicheranno in primis non alle classi articolate, ma a clima, cultura, ethos e carattere. 





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