Insegnare è cosa che non si finisce di imparare. Lo sappiamo bene noi professori di scuola, che ogni mattina ci misuriamo con la ricchezza e la complessità di classi nelle quali ognuno dei nostri ragazzi ha peculiari storie, passioni, difficoltà, atteggiamenti, attitudini, fin anche variabilissimi umori… Come dar valore, come accompagnare la crescita di ciascuno? Come impiegare bene le ore di scuola, perché nessuna occasione sia sprecata?
Non ci sono risposte facili a queste domande. In questi anni, tuttavia, ci sono state offerte molte risposte a buon mercato: da una parte seminari di approfondimento ed elenchi (anche ministeriali) di contenuti, dall’altra — e quasi in opposizione — strategie per pianificare le attività, strumenti per analizzare e misurare lo studente e tante, proprio tante e diverse metodologie — dalle più artigianali a quelle tecnologicamente avanzate — per trasmettere le conoscenze e per gestire le relazioni tra le persone che vivono e lavorano nelle aule.
Tutte cose utili, non possiamo negarlo. Ma anche clamorosamente inadeguate al bisogno vivace che quotidianamente impattiamo. Perciò non stupisce che, qualcuno appassionato di novità e qualcuno più deluso e sospettoso, ci ritroviamo — magari dopo tanti anni di mestiere — a cercare di imparare come insegnare.
Durante la recente convention di Diesse a Bologna, sabato 22 e domenica 23 ottobre, una trentina di insegnanti si sono riuniti nella Bottega di filosofia (e altrettanti in differita streaming). Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Bari, ci ha condotti dentro le pieghe del testo La questione della tecnica di Martin Heidegger mostrandoci l’unità profonda dei diversi momenti che compongono l’insegnamento attraverso un metodo in azione. Un metodo che non si esaurisce nell’applicazione di “tecniche” o di “metodologie”, ma che coincide con la chiamata in causa della persona stessa del docente. Mai come nell’atto di insegnare, infatti, siamo nelle condizioni di riaprire continuamente le domande autentiche. Quelle domande che non si lasciano liquidare con una risposta definitiva, quelle che condividiamo con gli autori che leggiamo e con gli alunni che ci ascoltano.
In questo senso la “competenza” — nostra o dei nostri studenti — non consiste tanto in una serie di operazioni applicate a contenuti: essa piuttosto fa tutt’uno con la persona del docente, con la sua capacità di dubitare e desiderare, cioè di domandare. Per questo è possibile, “andando a bottega”, riscoprire autori e temi, che si ritenevano magari saputi, e ritrovarli come questioni aperte e viventi, come ha ricordato Marco Ferrari introducendo il lavoro.
Tuttavia, se l’occasione si giocasse semplicemente al livello di un aumento di conoscenze — certamente preziose — o di un’erogazione di strumenti e strategie si tratterebbe di un corso di aggiornamento come gli altri. La Bottega è qualcosa di più: è un luogo dove tutto si tiene assieme, una provocazione che ci implica nel cuore del nostro essere persone e dunque del nostro insegnare. Se non accettiamo questa sfida, nessun approfondimento di contenuti e nessuna strategia didattica farà di noi un insegnante (e tantomeno un insegnante “migliore”).
Questa intuizione si è confermata nel corso delle assemblee plenarie, e soprattutto nella Bottega della domenica mattina, durante la quale la sfida dell’educare insegnando è diventata chiave di lettura del nostro lavoro. Gian Paolo Terravecchia, docente di filosofia presso il Convitto Nazionale “Paolo Diacono” di Cividale del Friuli (Udine), condividendo la concretezza e creatività del suo “lavoro sul campo”, in particolare sulla competenza dell’argomentare, ci ha aiutati ad aprire la domanda sulle dimensioni e le dinamiche dell’insegnare filosofia, dalla classe alle gare di debate cui partecipa da anni, Romanae Disputationescomprese.
E ci ha condotto anche a far fuori un’altra contrapposizione, che periodicamente riaffiora nei dibattiti della scuola: nella Bottega di filosofia abbiamo sperimentato che è riduttivo e fuorviante separare competenza e contenuto. La competenza è infatti la nostra esperienza del contenuto stesso; è, come direbbe Aristotele, una héxis, un habitus, una virtù che consiste nell’eccellenza in un ambito, conseguente all’esercizio — e che dunque, per inciso, è educabile.
Il dibattito vivace ha mostrato che nulla è scontato e che abbiamo ancora il bisogno e il gusto di metterci in discussione; e ci ha restituito la certezza che nessuno può fare questo percorso da solo; c’è bisogno di una “comunità educante” (e solo perciò “professionale”) dove sia possibile per ciascuno sperimentare nel proprio vissuto ciò su cui si forma e su cui riflette. Perché non si tratta di adottare strategie, ma di ripensare il modo in cui lavoriamo a partire da quello che siamo; di recuperare quell’unitarietà che non è mai frutto di una nostra costruzione o di un nostro progetto, ma di una scoperta.
Alessandra Gibertoni, Giorgia Pinelli