(Seconda e ultima parte dell’articolo SCUOLA/ Se si riduce a suonare il piffero della Rottamazione, ndr.)
Titulo oreginario: Politica y cultura
Caro Togliatti,
Eccetera eccetera eccetera.
Titulo paragrafario: Doppio fronte della cultura
Eccetera.
Ora io non voglio dire che politica e cultura siano perfettamente distinte e che il terreno dell’una sia da considerarsi chiuso all’attività dell’altra, e viceversa. Ma certo sono due attività, non un’attività sola; e quando l’una di esse è ridotta a non avere il dinamismo suo proprio, e a svolgersi, a divenire, nel senso dell’altra, sul terreno dell’altra, come sussidiaria o componente dell’altra, non si può non dire che lascia un vuoto nella storia.
La cultura che perda la possibilità di svilupparsi in quel senso di ricerca che è il senso proprio della cultura, lascia inadempiuto un compito per aiutare ad adempierne un altro. Né si deve credere che alla politica serva un aiuto simile. L’influenza che la cultura può esercitare agendo da mezzo della politica sarà sempre molto esigua. E accade inoltre che sia inadeguata, che sia imperfetta. Tanto di più serve invece, obiettivamente, alla storia che la cultura adempia il proprio compito, e continui a porsi nuovi problemi, continui a scoprire nuove mete da cui la politica tragga incentivo (malgrado il fastidio avutone sul momento) per nuovi sviluppi nella propria azione. Nel corso ordinario della storia, è solo la cultura autonoma che arricchisce la politica e, quindi, giova obiettivamente alla sua azione; mentre la cultura politicizzata [burocratizzata, razionalizzata, economicizzata], ridotta a strumento di influenza, o, comunque, privata della problematicità sua propria, non ha nessun apporto qualitativo da dare, e non giova all’azione che come un impiegato d’ordine può giovare in un’azienda.
Eccetera.
Titulo paragrafario: Suonare il piffero per la Rottamazione?
Qui avrei finito con l’argomento in discussione tra noi, potrei anche chiudere, ma ancora non ho detto quello che di importante, di particolare e tuttavia importante, mi sembra di avere da dire. Voglio esprimere interamente la perplessità in cui ci troviamo tanti e tanti intellettuali (parlo anche di intellettuali non iscritti al P.C. [al Politicismo, al Sindacalismo, al Religismo, al Culturalismo: all’Ideologico. Oggi al Managerismo. Eccetera eccetera eccetera]) di fronte a qualcosa che oggi inaridisce o comunque impedisce di essere più vivo il rapporto tra politica e cultura entro e intorno al nostro Partito. Io non ho mai inteso dire che l’uomo politico non debba “interferire” in questioni di cultura.
Io ho inteso dire ch’egli deve guardarsi dall’interferirvi con criterio politico [religioso], per finalità di contingenza politica, attraverso argomenti o mezzi politici, e pressione politica, e intimidazione politica. Ma in quanto uomo anche di cultura, anche di ricerca, egli non può non partecipare alle battaglie culturali. Solo che deve farlo sul piano della cultura stessa e con criterio culturale. Eccetera eccetera. È a questo ch’io mi sono opposto e mi oppongo: questa inclinazione a portare sul campo culturale, travestite da giudizi culturali, delle ostilità politiche [religiose] e delle considerazioni d’uso politico [religioso], col lodevole intento, evidentemente, di rendere più spiccio il compito della politica, ma col risultato di alterare i rapporti tra cultura e politica a danno, in definitiva, di entrambe. Servirsi di una menzogna culturale equivale a servirsi d’un atto di forza, e si traduce in oscurantismo [banale, quotidiano totalitarismo]. Non è partecipare alla battaglia culturale e portare più avanti, con le proprie ragioni, la cultura, e portarsi più avanti nella cultura: trasformare e trasformarsi. È voler raggiungere dentro la cultura un effetto o un altro restando al di fuori dei suoi problemi. È agire sulla cultura; non già agire in essa. Oscurantismo, ho detto. E produce quello che l’oscurantismo produce: insincerità, aridità, mancanza di vita, abbassamento di livello, arcadia, infine arresto assoluto.
Eccetera eccetera eccetera.
Può bastare che uno scrittore “parli male di Garibaldi” per essere trattato da scrittore controrivoluzionario? Molti uomini politici parlano male di scrittori rivoluzionari, eppure gli scrittori non li trattano da uomini politici controrivoluzionari. Giuseppe Mazzini, per citare un esempio già illustre, scrisse che Leopardi era un poetuccio decadente al paragone del “grande poeta civile” (figurati!) G. B. Niccolini, eppure nessun uomo di cultura si è mai sognato di considerare Mazzini un reazionario. Noi pensiamo, tutt’al più, che Mazzini non era in grado di intendere il valore della poesia di Leopardi.
Eccetera.
E noi, sentendo trattare da scribacchini degli scrittori [professori] che sappiamo di prim’ordine, abbiamo l’impressione di essere tutti sminuiti, e che il nostro stesso mestiere sia sminuito, che la cultura stessa sia sminuita, che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non possano mai essere riconosciuti come tali dai nostri compagni politici.
Eccetera.
Titulo paragrafario: Uno sforzo che eviti l’arcadia
L’arcadia è l’arte che il vittorianesimo o il secondo impero [e ogni potere] volevano: arte del conformismo; e io dico che “«non insegna” in quanto non insegna nulla che trovi essa stessa, scopra essa stessa nella vita; in quanto non ha nulla di nuovo da dire per proprio conto; in quanto si limita a ripetere “insegnamenti” che già la morale comune, o il costume, o la politica, o la Chiesa insegnano.
L’estetica dell’arcadia implica una distinzione tra verità e poesia, per cui la verità viene concepita a prescindere dall’elemento che la poesia è di essa e della sua ricerca, e la poesia concepita a prescindere dalla parte integrante che ha nella verità e nella sua ricerca. Il razionalismo astratto, che tutto misura a piccoli passi visibilmente razionali e non vuole riconoscere per razionali i passi più lunghi o non visibilmente razionali, o meno visibilmente razionali, è la posizione culturale che più favorisce le scivolate dell’arte nell’estetica arcadica. Le favorisce da semplice filosofia, e le favorisce anche da politica. Induce i poeti a dire: “mettiamoci al servizio della verità”. E non si accorge che questo significa indurli a non lavorare per la verità, a non adempiere il loro compito di scoperta propria della verità, a non cercare anche loro la verità, a indurli in compenso a suonare il piffero per una forma raggiunta di verità cui mancherà in ogni caso la parte di verità di cui essi avrebbero dovuto integrarla.
Che il piffero sia suonato su temi di politica, di scienza o di ideologia civile anziché su temi di ideologia amorosa non cambia in nulla il carattere arcadico d’una simile musica.
Eccetera eccetera eccetera.
Ma il marxismo [liberismo, proselitismo, progressismo, rottamismo, -ismo] contiene parole per le quali ci è dato di pensare che la nostra rivoluzione può essere diversa dalle altre, e straordinaria. Può essere tale che la cultura non si fermi o che la poesia non decada ad arcadia, e noi dobbiamo almeno sforzarci di fare in modo che sia tale.
Eleio da Victoria
(Il Politecnico, n. 35, gennaio-marzo 1947)
(2- fine)