Tre mesi sono passati dall’inizio della scuola e sembra che tutto si sia assestato dopo la frenesia dei primi due mesi, tutti occupati dalla formulazione dei programmi, dalla identificazione dei progetti e dalla creazione di un rapporto con le vecchie e le nuove classi. La scuola sembra essere un treno, una volta avviato va e corre su binari prestabiliti, binari che portano a stazioni prefissate e da cui non si può prescindere. Questo sembra essere la scuola e ora, a dicembre, sembra che tutto sia a posto.
In realtà, dentro questo apparente tran tran quotidiano dove tutto viene assorbito, vi è qualcosa che sfugge, qualcosa che urge a cambiare direzione e che si dovrebbe cominciare a prendere sul serio. Una cosa è certa: questo svolgersi delle procedure accade, ma vi è qualcosa di ancor più significativo che accade, e che chiede di essere considerato. Non è un nuovo sessantotto, né il lamento che si leva perché tutto va male. E’ una domanda nuova che si sente nell’aria e che rischia di essere lasciata lì, perché non si trova una risposta pronta. Invece va al cuore della questione scuola.
Due sono le facce di questa domanda che vibra nell’aria. La prima è una domanda che si è fatta più insistente per il cambiamento generazionale che sta avvenendo. E’ una realtà: il volto della scuola sta mutando, molti insegnanti stanno andando in pensione e vi sono giovani che entrano a scuola sia come potenziamento sia con la possibilità di avere una cattedra di insegnamento. Che cosa portano questi giovani dentro un mondo che si era assestato? L’esigenza che l’insegnamento torni ad avere fascino e porti dentro le classi la passione per la conoscenza. Questa domanda non sopporta la riduzione dell’insegnamento a teorie da applicare o regole da rispettare, perché vuole ciò che l’insegnamento è, una tensione inesauribile ad allargare gli orizzonti della realtà fino a toccare le vette più elevate del vero e del bello.
E guai ad uccidere questa domanda, guai a buttare acqua su queste fiamme che attizzano nuovi incendi, guai! Qui, in questo desiderio con cui si entra ogni mattina in classe, in questa passione con cui si aprono i libri o si accende la Lim si trova la possibilità di percorrere nuove strade di conoscenza. Oggi più che mai è evidente che la questione della scuola non sono le riforme, ma chi entra in classe, e oggi vi è una domanda nuova in chi entra in classe, non più lo scetticismo con cui è invecchiata la scuola. Prendere sul serio questa domanda può aprire strade nuove.
La seconda faccia di ciò che sta succedendo oggi riguarda gli studenti, è il loro studio. Vi è un disagio che si percepisce dentro le classi, il disagio di quando si devono tirare le somme, per cui si passa da una verifica a un’interrogazione, da un’interrogazione ad una verifica senza soluzione di continuità. Una mia studentessa ha espresso in modo incisivo questa situazione dicendomi che questo bombardamento di impegni scolastici arriva a non farla più pensare, a toglierle idee. Mi ha colpito questa affermazione, ne ho discusso con lei per cogliere l’istanza che sta dentro questo giudizio apparentemente negativo. E’ la domanda che lo studio da meccanismo di stimolo-risposta diventa possibilità di ricerca, è la domanda di diventare protagonisti e per questo occorre scoprire il senso dello studio, il perché — come diceva don Milani — ciò che faccio a scuola mi interessa. Si apre così un’urgenza decisiva, quella di chiudere con lo studio come cappa, come peso da portare, per entrare in una prospettiva nuova, quella in cui lo studio assume il fascino di una ricerca. Nella scuola urge trovare la strada per far diventare lo studio un percorso che interessa perché riguarda la vita.
Sono queste due domande che hanno la stessa origine, quella di poter gustare ciò che si fa in classe. Arrivano da due direzioni diverse e urgono che si vada nella stessa direzione, che si aprano orizzonti di vera conoscenza, di affascinante comprensione del reale. Sono due facce della stessa medaglia, non vi è una risposta che si deve dare, una teoria pedagogica da applicare come si è fatto spesso, oppure delle regole da stabilire come si è fatto altrettante volte; c’è da prendere una strada e percorrerla pazientemente. E’ tempo di esperienza. Che ognuno possa farla, finendola con una prassi antididattica che stabilisce in anticipo il percorso che si deve fare. E’ ora di stare alle domande che sorgono e di seguire la prospettiva che imprimono, per verificarne l’incidenza dentro la realtà. Ed è ora che ognuno si prenda la responsabilità di tentare.