E così, come l’influenza d’inverno o l’allergia al polline in primavera, sono passate nella scuola italiana le prove Invalsi cioè, per chi non è nel mondo della scuola, Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione. Sempre per chi non lavora a scuola e, lo capiamo, fa fatica a raccapezzarsi tra i suoi misteri, l’Invalsi sforna ogni anno prove da somministrare agli alunni di ogni ordine e grado, fatte soprattutto di test a crocette e qualche domanda a risposta aperta. L’utilità di tutta questa baracca che, ricordiamolo, coinvolge milioni di studenti con spesa di milioni di euro, dovrebbe avere lo scopo, più che giusto, di valutare lo stato generale della scuola e di conseguenza proporre rimedi e sviluppi.
Detto così, suona bene: un monitoraggio nazionale ci vuole e la maggior parte degli insegnanti, checché se ne dica, lo auspica e non lo teme. Ma è a questo punto che insorgono alcuni problemi: passi che la valutazione riguardi solo alcune materie, a cui quest’anno s’è aggiunto l’inglese, maldestramente, perché questa materia ha da verificare un importante livello orale per cui occorrerebbero strumenti informatici che le aule informatiche spesso scalcagnate e pezzenti delle scuole si sognano; passi che le prove stesse contengono sempre degli errori, non solo per le domande di equivoca correzione, ma proprio per vere e proprie stecche culturali (quest’anno nella prova di matematica di quinta primaria si chiedeva di calcolare la cronologia della vita di Cleopatra che assieme ad Antonio sarebbe stata sconfitta, per i cervelloni dell’Invalsi, ad Anzio: ma hanno sbagliato guerra e il conto di quasi due secoli, perché ad Anzio, località sulle coste del Lazio, sono sbarcati gli alleati nella seconda guerra mondiale, mentre la battaglia navale in cui Ottaviano Augusto ha battuto la regina d’Egitto è Azio… poco credibile la giustificazione dell’Invalsi secondo cui si sarebbe trattato di un refuso tipografico. Questo è un refuso culturale!), ma tant’è, ci siamo abituati, anche alla Maturità ci aspettiamo degli errori, come sempre negli ultimi anni, il che ci fa chiedere come li assumano gli “esperti” a Roma, Miur o Invalsi che sia; passi che nella terza parte delle prove di quest’anno, quella con le domande statistiche la cui intenzione è di ricavare il quadro socio-familiare degli studenti, avesse (nella scuola primaria!) domande che suonano come “che lavoro speri di trovare da grande”, o “quanti soldi speri di guadagnare”, o anche “speri di averne abbastanza” che, più che statisticamente, sembrano voler indirizzare i bambini, se non plagiare, verso un preciso ideale di vita, diciamo, material-consumistico, consumatori insomma, e massa lavoro, altro che cittadini consapevoli, democratici e critici, come strombazzano i programmi; passi che le competenze verificate nei test siano pochissime, rispetto alla mole di lavoro che si fa nelle scuole, perfino all’interno delle discipline considerate, tipo l’italiano, quindi scarsamente indicative alla fine, e inoltre schiacciate appunto sulle competenze e non sulle conoscenze… lo so, per chi non è nella scuola è faticoso leggere quest’articolo; passi che, appunto, noi che stiamo sempre a inseguire modelli culturali anglosassoni (da cui abbiamo preso anche i test a crocette mentre nella nostra scuola continua pur tra mille pericoli a sopravvivere, per fortuna, l’insegnamento come relazione educativa), dovremmo sapere che il corrispondente americano dell’Invalsi ha scoperto che le conoscenze non hanno poi così scarsa importanza e sta tornando indietro rispetto al punto in cui siamo impantanati noi; passi che tutto il baraccone dei test si regge sul lavoro volontario degli insegnanti, che passano ore non pagate a preparare la somministrazione e a correggere le prove, dimostrando ancora una volta che la schiavitù antica, dei tempi di Cleopatra, la servitù della gleba medievale e la scuola italiana odierna sono i tre principali ambiti della storia umana in cui sembra normale chiedere alla gente di lavorare senza compenso (sindacati! Se ci siete, battete un colpo: non vi meravigli poi se l’indice di gradimento del vostro operato sia attualmente al 17 per cento dei lavoratori italiani); passi tutto questo e altre amenità.
Ma ammettiamo che funzioni, ammettiamo che una valutazione oggettiva e generale della situazione scolastica italiana da queste folate di test sia effettivamente venuta fuori: e adesso? Che succede? Cosa è successo dopo ogni anno? Dove vanno a finire quei dati? Chi li usa? Chi propone rimedi? Chi procede di conseguenza? Questa, alla fine, è la beffa maggiore in un paese che, non servirebbe ricordarlo, non solo non ha ancora un ministro dell’Istruzione, ma neppure un governo, il che non è peggio rispetto al ministro/governo precedente, almeno. Tutto qui: non sarebbe nulla lavorare, valutare onestamente e oggettivamente, avere strumenti di conoscenza della situazione per migliorare le cose. Ma in questa situazione, il dubbio è davvero questo: cui prodest?
PS: per gli “esperti” dell’Invalsi: casomai voleste tornare a parlare di Cleopatra, Azio, il luogo dove fu sconfitta la regina d’Egitto, non è in Egitto, ma in Grecia.