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Home » Educazione » SCUOLA/ Subire la letteratura o mettersi in ascolto dei grandi?

  • Educazione

SCUOLA/ Subire la letteratura o mettersi in ascolto dei grandi?

Salvatore Bottega
Pubblicato 18 Marzo 2019
firenze_citta_brunelleschi_giotto_lapresse

Firenze (LaPresse)

Se i libri e gli autori che parlano in essi non diventano “vere presenze” la scuola è destinata a fallire. La lezione dei “Colloqui fiorentini”

“Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono”.


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Le parole di Niccolò Machiavelli, consegnate alle pagine, a ragione celeberrime, della epistola a Francesco Vettori del 1513, presentate dalla manualistica scolastica come manifesto di una posizione intellettuale “squisitamente umanistica”, contengono, in realtà, delle indicazioni di metodo per chiunque voglia accostarsi alla lettura dei libri, vivendo tale rapporto in termini di esperienza.


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A ogni uomo che intenda conoscere se stesso in relazione al mondo in cui gli è toccato di vivere, eredità delle generazioni che gliel’hanno affidato, è richiesta quella che George Steiner chiama “la cortesia del domandare”. Tra il lettore e l’autore di un libro, stando alla lezione del cancelliere fiorentino, si realizza un vero e proprio colloquio, in grazia del quale diventa possibile “domandare della ragione” delle azioni degli uomini, i quali “per loro humanità” rispondono.

è la comune appartenenza, di autore e lettore, alla condizione di uomo a rendere possibile tale dialogo ininterrotto e a giustificarne la ragionevolezza, visto che le domande che urgono nel cuore degli uomini “fanno divorzio dal tempo e dallo spazio” e abitano, agitandola, la vita di tutti, quella di un pastore errante dell’Asia così come quella di chiunque prenda sul serio la propria vocazione di essere uomo. Come hanno dimostrato, ancora una volta, le giornate dedicate all’incontro con la voce di un poeta, quest’anno Giacomo Leopardi, conclusesi da poco e andate in scena al Nelson Mandela Forum di Firenze, nell’ambito della XVIII edizione de “I Colloqui fiorentini”, iniziativa promossa dell’Associazione di insegnanti Diesse Firenze.


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Lo spirito dei “Colloqui”, ai quali chi scrive prende parte dal 2008, potrebbe essere riassunto in queste parole del già citato Steiner: “Una lettura seria e profonda cambia la mia vita: è un incontro all’angolo della strada con l’amante, con l’amico, con il nemico mortale”. Come ripete spesso Davide Rondoni, anche quest’anno applauditissimo relatore della kermesse, l’unica biografia che interessa quando leggiamo un libro non è quella di chi l’ha scritto bensì la nostra, quella vita che si agita in noi e che è chiamata, si direbbe costretta, a muoversi e commuoversi, cambiando per sempre, nell’incontro con la voce d’autore. Questi è, letteralmente, qui auget, colui che, incarnando la propria autorità, non ha bisogno né di costrizione né di seduzione, entrambi strumenti del potere, per “farci crescere”, avendo a propria disposizione la semplice evidenza.

Eppure la traccia di metodo finora adombrata, riassunta nel termine “colloquio”, nonostante il roboante successo dei “Colloqui fiorentini”, che quest’anno hanno attirato nel capoluogo toscano 4mila tra studenti e docenti provenienti da tutte le regioni italiane (qualunque altra iniziativa “simile” non si avvicina neanche lontanamente a raggiungere questi numeri), appare ancora ben lontana dal divenire consolidata prassi scolastica, restando spesso, nella più desiderabile delle ipotesi, una piacevole intermittenza dell’ordinario.

Il fatto è che questo presunto ordinario, fatto di “esigenze di programma” (parola già da anni scomparsa nell’uso linguistico ministeriale, eppure ancora troppo presente negli assilli di docenti che, temendo tale spauracchio, contribuiscono, anche quando armati di buone intenzioni, a fare dell’apprendimento un inseguimento affannoso o un tributo da versare) e adempimenti in vista degli esami di Stato (a onor del vero, la recente modifica delle prove d’esame sembra incoraggiare una certa audacia metodologica), se non ha prodotto, certo non ha ostacolato il fenomeno della pressoché totale disaffezione dei ragazzi alla lettura. Al cospetto del dato secondo il quale metà dei ragazzi italiani di età compresa tra i sei e i diciannove anni, quindi in età scolare, non legge neanche un libro all’anno (quelli scolastici tecnicamente non sono libri, non a caso li chiamiamo manuali), chiunque faccia l’insegnante non può restare indifferente o, peggio, addebitare la responsabilità di un simile sconcertante fenomeno esclusivamente a dinamiche estranee a quelle scolastiche. La scuola c’entra, eccome!

Se non ridiventa chiaro, come lo è stato per millenni in Occidente, che i libri, la letteratura (non la storia della letteratura, con la quale abbiamo sostituito l’incontro con la voce di un poeta o di un romanziere, probabilmente perché stare di fronte al gesto cui una voce rimanda “fa tremar le vene e i polsi”), sono fatti umani e, pertanto, potentissimi termini di paragone per un io che desideri avverare se stesso, la scuola non smetterà mai di spiacere a tutti coloro che la “subiscono”, studenti, docenti, dirigenti. Naturalmente non si vuole affatto misconoscere la preziosa opportunità, offerta dalla letteratura, di far luce su fenomeni sociali e storico-politici, solo che occorrerebbe non ridurre esclusivamente a tale funzione ciò che nasce dal diverso bisogno di mettere a fuoco la realtà in tutte le sue manifestazioni, inclusa soprattutto la soggettività di chi nella storia si muove e ne è testimone.

Come ha dichiarato recentemente, in una lucida e impietosa intervista sulla scuola, Umberto Galimberti, le cui posizioni non sempre sono riuscite gradite a chi scrive, “i sentimenti si imparano”, sono un prodotto della cultura e non una dotazione naturale negli uomini e, da sempre, gli uomini si educano a “sentire” attraverso la “lezione dei maestri”, attraverso lo sguardo degli scrittori che, osservando e nominando i fenomeni, li fanno presenti a noialtri che, leggendo, possiamo a nostra volta riconoscerli e chiamarli per nome, smettendo per un po’ il nostro confuso balbettio.

Una residua speranza, ci si augura non l’unica, di far ritornare i libri nella vita dei ragazzi come “vere presenze”, riposa nella costruzione, a scuola, di un metodo di lavoro che insista sul libero incontro tra chi legge e chi scrive, allo scopo di costruire uno spazio in cui sia possibile il colloquio con chi ne sa di più e può orientare col proprio il nostro sguardo, permettendo a ogni uomo di soggiacere da libero “a maggior forza e a miglior natura”, come spiega Marco Lombardo in versi memorabili del XVI del Purgatorio dantesco.

La esiguità di spazio a disposizione, unita alla natura articolata della questione, non permette  di essere dettagliati nella definizione dei termini del problema, tuttavia pare indispensabile proporre un rapidissimo specimen di ciò che si intende per metodo esperienziale di approccio al testo letterario, traendolo proprio da uno degli interventi proposti ai “Colloqui fiorentini”, quello del poeta Gianfranco Lauretano sul cosiddetto Ciclo di Aspasia, contenuto nei Canti di Leopardi.

Attraverso la lettura, sia pur non integrale per evidenti ragioni di tempo (ma in classe la lettura di una poesia deve essere integrale e ad alta voce, affinché se ne comprenda la natura di gesto che riaccade ogni qualvolta la si recita), di Il pensiero dominante, Amore e morte,  A se stesso e Aspasia (la lirica Consalvo, che pure appartiene al Ciclo, è stata soltanto citata), Lauretano, mercé le parole leopardiane, spesso esaminate foneticamente, metricamente oltre che semanticamente, e mediante riferimenti continui all’esperienza del poeta e propria, ha fatto luce su quella che ha definito la maledizione di Leopardi: l’infinito. Se Fanny, una donna ordinaria al punto da essere ovvia, può essere guardata e detta come Aspasia, ciò è reso possibile dallo sguardo di un uomo che ha l’infinito come maledizione per sé ma benedizione per lei e per tutti noi, che grazie alle sue parole scopriamo come poter essere guardati e come guardare.

Solo permettendo alle parole di uno scrittore di interpretare e dare voce alla nostra confusa modalità di leggere la realtà, sarà possibile fare nuovamente spazio ai libri nella vita.         


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