Resterà un mistero. I partiti del centrodestra “di governo” – ma come si chiameranno da domani? – hanno deciso in un pomeriggio la liquidazione dell’unità nazionale che Mario Draghi, con il loro contributo, certo alimentato a tratti di un confronto anche aspro, ma sempre condiviso, aveva costruito su mandato di Mattarella. Non sarà facile capire il perché. Eppure, alle urne non si sfugge: vi saremmo arrivati comunque. Se non il 2 ottobre, come probabilmente sarà, nel febbraio o nel marzo prossimo. Giusto il tempo per prepararsi al meglio al voto, oliando le alleanze, mettendo a punto le candidature. E invece, la cupio dissolvi ha smentito le aspettative della vigilia e costretto il presidente del Consiglio ad una conta che forse neppure lui voleva.
Il discorso del premier, insieme programmatico e di bilancio, esortava a “ricostruire da capo” il patto di unità nazionale che molti, troppi distinguo di stampo elettoralistico avevano privatizzato e indebolito. Lega e FI hanno visto nel discorso di Draghi una minaccia, una riduzione – chissà perché – della loro agibilità politica nei prossimi mesi, invece che un rilancio di opportunità, quando invece prevalevano la visione e lo spirito costruttivo. E dire che le parole del premier erano improntate ad una precisa consapevolezza del proprio limite politico: “ritengo che un Presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile”. Era questo sostegno – anche nella visione inaugurale di Mattarella – il contrappeso non solo formale ai “poteri” di Draghi. Ora nel centrodestra si inneggia alla compattezza di Forza Italia e Lega, ma Berlusconi paga l’abbraccio esiziale con Salvini con una spaccatura immediata nel partito: Gelmini sceglie Draghi e altri la seguiranno.
Che l’obiettivo del centrodestra fosse quello di uscire dall’unità nazionale lo si è capito al momento della replica del presidente del Consiglio, quando Draghi ha criticato in modo durissimo le bandiere pentastellate del Reddito di cittadinanza fatto in modo sprecone e del superbonus “senza discernimento” nei meccanismi di cessione. In quel momento si capiva che Conte e i suoi 5 Stelle erano stati messi alla porta una volta per tutte e che il centrodestra “di governo” aveva ottenuto quel che voleva: il resto era “solo” politica, ossia facoltà, se si vuole, di trovare un punto di caduta, una mediazione. A Lega, FI e M5s sarebbe bastato votare la mozione Casini per rilanciare il programma Draghi e con esso anche la loro azione di governo, ma evidentemente gli obiettivi erano altri (e cioè le urne, come ha osservato Renzi, difficilmente smentibile).
92 i senatori presenti, 133 i votanti, 67 la maggioranza, 38 contrari, 95 a favore, questi i numeri di un triste pomeriggio italiano. La fiducia c’è, ma politicamente non basta. Oggi Draghi sarà alla Camera, dove annuncerà le dimissioni, per poi recarsi al Quirinale e rimettere il mandato nelle mani di Mattarella. Costruire sulle macerie è stata finora una specialità invidiabile di questo Paese; non è detto che sempre riesca.
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