Significato e Senso del Lessico Scientifico
Sempre più spesso, oggi, l’attributo «scientifico» viene utilizzato in modo ambiguo e improprio. Per fare chiarezza l’autore riflette sulle caratteristiche del fare scienza e ne analizza validità e limiti anche attraverso una serie di esempi. Mostra inoltre quanto sia culturalmente riduttiva la concezione corrente, che associa il concetto di scienza alla realtà naturale esclusivamente nei suoi aspetti matematizzabili. Nel percorso rigoroso, e attraverso analogie e differenze perviene a indicare la ricerca del vero come il nucleo irrinunciabile di ogni reale esperienza conoscitiva.
Lord Ernest Rutherford (1871-1937) è passato alla storia della fisica, quella che tutti raccontano, per aver dimostrato sperimentalmente che l’atomo è costituito da un nucleo e da un involucro di elettroni che gli ruotano intorno. In un circolo più ristretto è noto anche per due tesi ancor oggi molto diffuse tra gli uomini di scienza. Una è riassunta dalla massima qualitative is poor quantitative, qualitativo è un quantitativo scadente, citata con perplessità dal coltissimo René Thom, illustre matematico francese da poco scomparso.(1) L’altra fu riferita verso il 1970 dall’illustre pedagogista statunitense Robert Hutchins (1899-1977) in un brioso «discorso dopo cena». «Rutherford era amico di Samuel Alexander,» disse press’a poco Hutchins riferendosi a un noto pensatore, «ma quando Alexander cercava di parlargli delle sue idee filosofiche, il suo commento era: “aria calda, aria calda, caro Samuel”. E avrebbe potuto dimostrare scientificamente quel che diceva» continuò l’oratore in tono grave, «misurando l’aumento di temperatura dell’aria nella stanza in cui Alexander parlava». Allora l’uditorio rise; oggi non pochi penserebbero sul serio che o il discorso di Alexander era fondato, e in quel caso doveva essere scientifico, cioè doveva avere degli aspetti osservabili e misurabili; oppure il bravo filosofo doveva rassegnarsi ad appartenere alla specie più inutile di intellettuali, appunto filosofi e poeti.
In sostanza, il punto di vista di Rutherford identificava ciò che è scientifico con il metodo e i criteri di attendibilità delle affermazioni della fisica in quanto fonte di conoscenze veritiere. Era cioè quello che in epistemologia si chiama «riduzionismo fisicalista».
La scienza e la fisica
Riduzionistico è quel tipo di giudizi che implicano la formula «nient’altro che». Per esempio, è riduzionista chi ritiene sufficiente far vedere che la cucina ha l’effetto di rendere i cibi più digeribili per concludere che la buona cucina è l’arte di rendere i cibi più digeribili. Allo stesso modo è riduzionista chi sostiene che basta capire come funziona il cervello per sapere tutto della mente.
Il riduzionismo può essere prezioso quando è metodico, perché allora risponde semplicemente a quell’esigenza che si chiama «economia di pensiero»: non cercare altre spiegazioni prima di aver esaurito quelle che si possono ottenere secondo una certa linea. Quando invece è sistematico, il riduzionismo è una piaga, perché è all’origine di discorsi aberranti, come quello ben noto sul «gene dell’altruismo». [Immagine a sinistra: Bartolomeo Passerotti, Ritratto di Ulisse Aldrovandi, Bergamo, Accademia Carrara]
Il riduzionismo stesso diventa poi fisicalista quando prende a modello quella forma di riduzionismo metodico che fin dall’epoca di Galileo ha caratterizzato la fisica. Quest’ultima cerca di spiegare le proprietà della materia in termini di processi – eventi ordinati in catene di cause ed effetti – che mettono in gioco i costituenti ultimi della materia e sono governati da leggi generalissime. Si definiscono poi opportune grandezze misurabili e si traducono le relazioni di causa-effetto in equazioni matematiche che ne collegano i valori. Questo «programma » ha condotto a risultati straordinari e dominò la scena del pensiero scientifico fin oltre alla metà del Novecento, ma in realtà non consente di dare spiegazioni complete nemmeno all’interno delle scienze della natura. Il problema in cui questa limitazione è più evidente è quello della vita.(2)
Per rendersi conto di come siano cambiate le cose basta ricordare il criterio di «falsificabilità» introdotto da Karl R. Popper (1902-1994). Quel criterio ebbe un momento di grande popolarità perché sembrava a prima vista decisivo per stabilire quando una teoria si poteva dire scientifica. Poiché tuttavia non si poteva applicare a teorie come quella dell’evoluzione, quel che ne rimane oggi non è molto di più che aver messo a fuoco un problema. È divenuto più chiaro che, per essere scientifica, la spiegazione di un fatto osservato deve rispondere a canoni ben precisi.
Peraltro, le ambiguità legate al termine «scientifico» si sono addirittura estese, per effetto di due fattori contrastanti. Da un lato, la prospettiva più ampia cui ha ceduto il posto il riduzionismo fisicalista si è aperta su discipline come la psicologia e la teologia; dall’altro, il dilagare della specializzazione in tutti i campi ha creato compartimenti stagni che rendono difficile qualunque confronto fra discorsi scientifici in ambiti diversi.
Chi è impegnato a proporre ai giovani i fondamenti della scienza si trova perciò a dover scegliere una rotta in un mare magnum di idee scollegate e confuse. E poiché l’unica cosa saggia è fare il punto della situazione, forse possono essere utili le annotazioni che seguono.
Usi e abusi di un attributo
Soffermiamoci anzitutto sugli usi correnti dell’attributo «scientifico». In generale, indica vagamente qualcosa di ben accertato e importante per il progresso tecnico ed economico. Su questo fondo comune, però, gli si danno almeno quattro sensi diversi.
In un primo senso scientifico è ciò che secondo chi parla «è dimostrato » da controlli «oggettivi» eseguiti da «esperti». Per esempio, si dimostra «scientificamente» che una certa lacca per capelli, CapLack per darle un nome, non danneggia i capelli, che gli ananassi fanno bene alla salute, e così via. Questo corrisponde all’idea che la scienza constata imparzialmente i fatti. Come diceva una battuta americana dei tempi d’oro: «lo scienziato non pensa, osserva».
In un secondo senso, molto efficace quando si tratta di persuadere dei profani, si chiama scientifica una ricerca che conduce a numeri ottenuti con metodi standardizzati. Si ritrova solitamente congiunto a numeri ricavati con metodi generalmente riconosciuti, in particolare quelli della statistica.
Chi non sa quanti tranelli nascondano le statistiche anche per il ricercatore più serio si sente pieno di riverenza quando i «tecnici» prima gli descrivono le innumerevoli precauzioni prese per raccogliere i dati in modo ineccepibile e poi gli pongono di fronte sfilze di dati numerici con stime degli errori probabili, dei valori mediani, degli scarti massimi, e che so io.(3)
[Immagine a destra: Leandro Dal Ponte, Ritratto dello scienziato Prospero Alpini, Stoccarda, Staatsgalerie]
In un terzo senso si chiama scientifico ciò che è opinione comune degli specialisti di un certo campo. Per esempio, tutti dicono che è «scientificamente» provato che l’universo è cominciato con una grande esplosione, il famoso Big Bang. Non interessa in che modo lo si sappia, e cosa significhi veramente: mette in moto la fantasia, si può usare come alternativa alla creazione ex nihilo – anche se non c’entra né in pro né in contra -, e questo basta. In un quarto senso è scientifica una risposta in termini di «fatti» osservati o di leggi di natura ai problemi posti dalla nostra esperienza del mondo sensibile. Perché l’erba è verde? La risposta «scientifica» è: perché contiene clorofilla, sostanza che assorbe le radiazioni intorno al rosso.
La scienza e le scienze
Non è facile dare un giudizio preciso su questi usi o abusi che siano. Non è facile se non altro perché ci sono due modi di intendere il termine «scienza».
Quando si dice «la scienza», magari con la maiuscola, si indica il complesso delle scienze matematiche, fisiche e naturali. Quando invece si parla di «una scienza» si pensa anche a molte discipline fuori dell’ambito matematico-naturale. Perché allora «scientifico» si dovrebbe riservare solo allo studio dei numeri e della natura?
In molti casi, forse, bisogna convivere con l’ambiguità, contando sul contesto. Ma proprio per questo è importante aver ben chiaro quand’è che un corpus di conoscenze costituisce una scienza.
Partiamo dalla definizione seguente: «scienza è un’attività di ricerca che produce una conoscenza argomentativa riguardo a un certo ambito del sapere». Non è una definizione perfetta, ma per i nostri scopi va bene, perché indica tre elementi essenziali: – ricerca in un certo campo, conoscenza, argomentazioni -, e non precisa nulla sugli oggetti che costituiscono il campo del sapere in questione.
Quest’ultima assenza è importante. Come si è detto, noi associamo abitualmente la parola scienza alla nostra esperienza sensibile e alla matematica, escludendo ricerche che vanno dalla teologia dogmatica alla psicologia analitica. Invece queste ultime sono scienze anch’esse, nei limiti in cui sono «argomentative», sono cioè strutture logicamente coerenti di risposte a problemi che emergono da un certo campo d’indagine.
I termini scienza e scientifico si applicano dunque a un corpus di conoscenze con le quattro caratteristiche seguenti, di cui diamo alcuni esempi presi da due casi estremi, la teologia dogmatica (T) e la fisica (F).(4)
Un campo d’indagine e dei metodi specifici per studiarlo
T: le proposizioni che rientrano o possono rientrare nella dottrina della Chiesa; esclusione di quelle non pertinenti;
F: i processi fisici al livello più elementare possibile; ricerca di dati e progettazione di esperimenti che corrispondon a processi ben precisi.
Un programma
T: determinare le relazioni tra le proposizioni oggetto di studio e i punti irrinunciabili della Rivelazione e della Tradizione;
F: ricavare un insieme coerente, completo e non ridondante di leggi e grandezze che consentano di descrivere il divenire delle cose materiali in termini di equazioni matematiche.
Criteri di verità
T: controllo della coerenza delle proposizioni studiate tra loro, con la Rivelazione e con le conoscenze certe ottenute dalle altre scienze;
F: controllo della coerenza delle ipotesi con principi e leggi già accettati, verifica quantitativa delle previsioni teoriche mediante esperimenti ad hoc.
Un universo di concetti
T: Dio, spirito, mondo, uomo, eccetera;
F: energia, gravitazione, particella elementare, eccetera.
Un discorso o una ricerca condotte nell’ambito di una disciplina con queste caratteristiche sono «scientifici», se con ciò si intende «oggettivi». Se infatti i dati di riferimento non dipendono dal ricercatore, se si procede a fil di logica e se ci si serve di criteri di verifica il cui verdetto non è questione di opinioni, si può giungere, almeno in linea di principio, a un’unica soluzione di ogni problema posto all’interno della disciplina.
Critica dei sensi correnti di «scientifico»
Riesaminiamo alla luce di queste precisazioni i quattro sensi dati all’attributo «scientifico» nel linguaggio comune.
A proposito del primo senso, «dimostrato mediante appositi controlli », si capisce dall’esempio della lacca per capelli che una cosa è l’osservazione e una cosa è l’interpretazione dell’osservazione.
[Immagine a sinistra: Carlo Cignani, Ritratto di Marcello Malpighi, Bologna, Accademia delle Belle Arti]
Che la lacca CapLack non abbia danneggiato certi capelli esposti ad essa per un certo periodo di tempo può essere verissimo. Ma con quale diritto si conclude che l’osservazione dice qualcosa su ciò che farà la lacca in altri casi e per periodi di tempo più lunghi? Se non c’è un’argomentazione precisa, l’affermazione «non danneggia i capelli» è una pura speranza.
Questo esempio fa sorridere, perché ormai lo sanno tutti che è linguaggio pubblicitario, ma in realtà mette in luce una problematica fondamentale di tutte le scienze, ivi compresa la fisica. Si tratta del fatto che le cosiddette «osservazioni», cioè la raccolta dei dati sperimentali è sempre, come dicono oggi, theory-laden, carica di teoria. Gli interrogativi che si pongono nell’ambito di ciascuna scienza, infatti, si studiano nel quadro del suo programma, che a sua volta implica ben determinate ipotesi e assiomi. In altre parole, osservazioni indipendenti da ipotesi e teorie praticamente non esistono.
Persino quando diamo lo stesso nome a una classe di oggetti, per esempio chiamiamo foglie certe parti dei vegetali, già facciamo una generalizzazione che presuppone che le differenze fra gli oggetti di una stessa classe, le foglie, siano meno significative di quelle tra oggetti di diverse classi, per esempio foglie e fiori.
Prendiamo poi la fisica delle particelle. S’impara all’università che le fotografie alla camera di Wilson, una forma di osservazione che ha aperto la strada a scoperte straordinarie, mostrano strie formate dal vapor d’acqua che si condensa al passaggio di una particella carica.
Come si fa a sapere che sono strie di vapore? Come si fa a sapere che sono causate da un campo elettrostatico? Come si fa a sapere che sono limitate al percorso di una particella? E, se è per questo, come sappiamo che davvero è entrata una particella carica? Le risposte sono quasi tutte del tipo: «se così non fosse, allora sarebbe violata la seguente legge…», oppure «questo è ragionevole perché è analogo a quello che si osserva in quest’altro esperimento…»; e così via. Lasciamo a chi legge di fare l’elenco lunghissimo delle argomentazioni teoriche su cui si fonda questa «lettura». Aggiungiamo solo che ci sono addirittura aspetti non completamente chiariti, per esempio il meccanismo della condensazione dell’acqua.
Il secondo senso, «ciò che è quantificabile è oggettivo», è una variante del primo che mette l’accento non tanto sul controllo sperimentale quanto sulla misurazione o valutazione numerica.
[Immagine a destra: Pietro Narducci, Ritratto dell’astronomo Barnaba Oriani, Milano, Pio Albergo Trivulzio]
Il ragionamento (fallace) su cui si fonda è questo: tutti sappiamo che 2+2 fa 4; questo risultato non dipende dalle idee e convinzioni di chi fa l’operazione, perché la matematica non è un’opinione. Questa «oggettività» si estende all’altra scienza esatta, la fisica, perché le grandezze fisiche sono misurabili e le loro relazioni sono rappresentate da equazioni. Dunque, se uno stato di cose si studia ricavando numeri secondo regole indipendenti dall’osservatore, lo studio è «scientifico» e oggettivo.
Questo discorso non regge dal punto di vista logico. Parte dalla certezza dei risultati matematici per passare alla fisica, i cui risultati sono oggettivi non perché si possono dare in forma numerica ma perché le equazioni esprimono relazioni tra proprietà della materia che consideriamo certe. Poi si estende a tutti gli stati di cose cui si possono associare dei valori numerici seguendo regole o criteri pratici ben definiti, e conclude che anche in quei casi si ha a che fare con dati oggettivi. Purtroppo però entrano in gioco pesantemente le riserve fatte a proposito del senso precedente, e l’affermazione si dovrebbe provare con argomentazioni che ne tengano conto.
Fermiamoci sull’esempio familiare delle statistiche, molto attuale per la didattica. Dai dibattiti sui «parametri economici» abbiamo appreso quanto siano difficili da interpretare queste ultime. Ma in economia se non altro ci sono dati quantitativi di partenza, per esempio le entrate dell’erario. In altri campi si crede che siano «oggettive» – e perciò scientifiche – cifre che hanno la sola qualità di non essere state direttamente manipolate. Si prenda il caso ben noto delle valutazioni statistiche sulla preparazione dei ragazzi che escono dalla scuola dell’obbligo.
Basta riflettere un momento per capire che le domande da “crocettare” non possono coprire certi aspetti della formazione, per esempio la capacità di cogliere il messaggio trasmesso da una poesia. I controlli statistici della capacità di lettura sono dunque falsati dalla natura stessa della valutazione. Inoltre, i tecnici offrono indicazioni di attendibilità dei dati, come l’errore standard, che presuppongono che gli scarti dalla media siano esclusivamente casuali. Un caso storico che fece scalpore fa capire bene che in generale non è così. Quasi un secolo fa negli Stati Uniti fu misurato il quoziente d’intelligenza delle varie razze o stirpi e risultò che i neri venivano per ultimi, subito dopo gli italiani. Solo più tardi ci si rese conto che moltissimi italiani parlavano un inglese molto approssimativo e che l’inglese dei neri è più povero e in parte diverso di quello dei bianchi. Gli analisti non avevano pensato che, poiché le domande erano fatte in inglese, la differenza attribuita al livello medio d’intelligenza era prodotta dal veicolo linguistico con cui venivano somministrate le domande.
A proposito del terzo senso, condensato nella clausola «lo dice la scienza», si sarebbe tentati di ricordare che a suo tempo fu fatto un gran chiasso a proposito del famoso ipse dixit, e poi si danno per accertate, semplicemente sull’autorità degli esperti, affermazioni che non si possono suffragare con esperimenti diretti e che solo pochi possono capire. Prendiamo la teoria del Big Bang. È verissimo che questa appare come la spiegazione più plausibile di osservazioni importantissime sull’universo.(5) Ma non è in sé una certezza dimostrata con i fatti, perché non esiste nessun tipo di esperimento che potrebbe servire per una verifica sia pure indiretta. Con un termine del linguaggio familiare, possiamo dire che se la si accetta torna tutto, o almeno così credono la maggior parte degli astrofisici. Insomma, nel terzo senso è scientifico quello che gli scienziati ritengono vero. Il quarto senso, su cui spesso si fondano argomentazioni contro la ricerca di cose come il senso della vita, corrisponde a limitare ciò che è scientifico al campo d’indagine e ai metodi delle scienze della natura, rifiutando realtà a un’esigenza insopprimibile dell’uomo, quella di un fondamento assoluto della morale e della verità. Abbiamo già accennato alle difficoltà che solleva questo punto di vista.
Scientifico, oggettivo, universale, comunicabile
Da tutto questo si trae innanzitutto una lezione di prudenza. Il giudizio «è scientifico» si dovrebbe usare con estrema prudenza. Occorrerebbe soprattutto prevenire associazioni di idee che in qualche modo sottintendono un giudizio di valore. L’arte e la letteratura non sono ricerca scientifica, ma è pernicioso relegarle fra i passatempi ed è immorale esercitarle come esibizione di trovate più o meno provocatorie. Esse anzi hanno in comune con le scienze la loro comunicabilità.
Detto questo, discutiamo infine brevemente un esempio fondamentale di distinzione fra scientifico e non scientifico. Confrontiamo il cammino con cui si giunge a una certezza scientifica come la conservazione dell’energia e il cammino con cui uomini come sant’Agostino giunsero alla fede religiosa.6 Seguiamo lo schema del metodo ipotetico deduttivo, che non si dovrebbe imbandire ai bambini della scuola elementare, ma che nella giusta forma e al giusto livello di maturità mentale è un buon modello di argomentazione scientifica.
A uno spirito curioso le osservazioni sperimentali più familiari pongono problemi difficili, come il fatto che, strisciando l’uno contro l’altro, due corpi in moto non solo perdono velocità, ma si riscaldano. In generale, poi, l’esperienza ordinaria fa ritenere che quando un corpo agisce su un altro ci sia qualcosa che viene trasferito. Nel caso degli urti si sa che ciò che si trasferisce è in particolare l’energia cinetica, e si sa che quest’ultima è equivalente al lavoro di una forza che produca appunto quella energia cinetica. Raccogliendo insieme queste osservazioni si giunse a formulare la seguente ipotesi: in ogni trasformazione di un sistema di corpi materiali c’è una grandezza che si trasforma, rivelandosi con cambiamenti di proprietà o di stato dei singoli corpi, e che tuttavia, se il sistema è realmente isolato, non cambia valore. Questa si chiama energia del sistema.
La legge generale così enunciata è la conservazione dell’energia. La sua verifica procede facendo vedere che non contraddice ma completa altre leggi già accettate e rende conto di tante osservazioni, per esempio il fatto che noi consumiamo più ossigeno e produciamo più calore quando facciamo un lavoro pesante. Pertanto, non solo la si accetta, ma la si erige addirittura a principio, perché si applica senza eccezione al divenire dell’universo fisico.(7)
Abbiamo qui una serie di domande del tipo «perché è così e non altrimenti?», un’ipotesi generale di risposta – «la ragione è che l’energia si conserva» – e una serie di verifiche su osservazioni già note e su altre che si possono predisporre appositamente.
[Immagine a destra: Giovanni Busi, Ritratto di Giovanni Benedetto Caravaggi, Bergamo, Accademia Carrara]
Facciamo vedere ora che si può costruire un cammino analogo per il discorso di fede religiosa e che così si può capire in che cosa esso differisce dal discorso scientifico.
Le domande iniziali sono dello stesso tipo, «perché è così e non altrimenti? ». Esse però non si riferiscono più a fatti di cui un soggetto prende atto con totale distacco, bensì alla sua reazione personale all’esperienza del mondo, per esempio allo spettacolo del trionfo della forza e della menzogna, alla sofferenza degli innocenti, insomma allo «scandalo del male». Che anche questi siano dati oggettivi, purtroppo non c’è dubbio. C’è poi la consapevolezza che, per quanto si lotti contro il male, la natura e la storia hanno una loro forza irresistibile. L’uomo cerca allora un’ipotesi che gli permetta se non altro di darsi ragione di questa e di altre esperienze, nonché di capire quello che può fare personalmente. Giunge infine, come avvenne a sant’Agostino(8), all’ipotesi dell’ esistenza di un essere supremo. Può dedurre da quest’ipotesi che vi sono aspetti della realtà che l’uomo per la sua limitatezza potrebbe non capire mai. Può dedurre che cercando una «rivelazione» avrà una guida e delle norme per non contribuire egli stesso al male.
Fin qui, il cammino è proprio quello che chiamano ipoteticodeduttivo, tipico delle scienze della natura.
Ma come facciamo la verifica?
Ammettere che certe cose non siamo in grado di capirle non è una verifica, anche se supera una difficoltà. In realtà, la verifica è possibile, ma non è l’accettazione in base a un discorso logico, è piuttosto la fede vissuta. Se, man mano che viviamo le nostre esperienze in coerenza con la nostra fede religiosa, vediamo che l’«ipotesi Dio» ci assicura l’equilibrio interiore e illumina le nostre decisioni in tutte le circostanze della vita, allora la verifica è positiva.
Proprio nella natura di questa verifica, d’altra parte, sta la non scientificità del discorso di fede. Fino alla verifica si segue la ragione, ma alla fine il giudizio pro o contro l’ipotesi affonda le sue radici nel vissuto, e perciò in ultima analisi deve consistere nell’adesione di tutta la persona, cioè nella fede.
Questo passo è necessariamente soggettivo, nel senso che ognuno deve compierlo da solo.
Ma anche questo non va frainteso: come si può condividere il riconoscimento di una verità scientifica, così si può condividere l’esperienza di fede, perché in ambo i casi sussistono un’universalità e una comunicabilità che derivano dalla natura umana.(9)
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Giuseppe Del Re
(Ordinario di Chimica Teorica presso l’Università “Federico II” di Napoli)
Note
- René Thom (1921-2003), Medaglia Fields per la matematica, creatore della teoria delle catastrofi, in: Prédire n’est pas expliquer – Prevedere non è spiegare, Champs-Flammarion, Paris 1993.
- Cfr. la nostra nota sui Sistemi nel n. 20, aprile 2004, di Emmeciquadro.
- Si veda un testo magistrale di Corrado Gini, illustre statistico italiano, pubblicato dalla rivista Punti Critici n. 8, ottobre 2003, intitolato I pericoli della statistica (1939).
- Mi scuso con i teologi per aver invaso il loro campo. Qui si tratta soltanto di dare un’idea della differenza con la fisica, non di determinare quello che veramente fanno i teologi dogmatici. Comunque ho consultato il vecchio ma eccellente testo De Deo creante et elevante, ancora in latino, di Thomas Mulldoon S.T.D., decano della facoltà teologica di Sydney, 1959.
- Cfr.: Alberto Masani, La Cosmologia nella storia, fra scienza, religione e filosofia, La Scuola, Brescia 1996.
- Cfr.: Giuseppe Del Re, The Cosmic Dance, Templeton Press, Philadelphia 2000, cap. 13. Per la storia del principio di conservazione dell’energia, cfr. la nostra nota sull’Energia nel n. 18, Agosto 2003, di Emmeciquadro.
- Con qualche riserva a livello quantistico, in forza del principio di Heisenberg.
- Come tutti sanno, lo racconta nelle Confessioni.
- Cfr.: Massimo Camisasca, Il segreto condiviso, Ares, Milano 2004.
© Pubblicato sul n° 23 di Emmeciquadro