Corte di appello di Milano conferma l'ergastolo per Impagnatiello. La sorella della vittima ha protestato per l'esclusione della premeditazione
La Corte di Assise di Appello di Milano ha confermato la condanna all’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, l’autore dell’omicidio di Giulia Tramontano e del bimbo che la donna portava in grembo. E non poteva che essere così: la gravità dei reati contestati e l’eccezionale pressione mediatica che ha accompagnato questo processo non consentivano di aspettarsi una soluzione diversa.
L’unica possibilità che aveva l’imputato per evitare la pena perpetua era il riconoscimento della semi-infermità mentale o la concessione delle attenuanti generiche, richieste a gran voce dalla difesa per il buon comportamento processuale dell’imputato e per la piena confessione resa nel corso del processo. Ma i giudici hanno negato entrambe le richieste della difesa e hanno confermato la sussistenza delle aggravanti della crudeltà e del rapporto affettivo con la vittima.
Scalpore e polemiche ha provocato invece l’esclusione dell’aggravante della premeditazione.
Mentre i genitori della ragazza si sono trincerati dietro un prudente e dignitoso silenzio, la sorella di Giulia ha rilasciato dichiarazioni molto pesanti, definendo disgustosa e vergognosa la legge che avrebbe chiuso gli occhi davanti alla verità, lamentando anche che l’imputato avesse potuto partecipare all’udienza invece che rimanere in cella.
Non si può certo giudicare la condotta di chi ha subito una perdita così grave, in quanto il dolore patito è enorme ed è comprensibile che possa sconvolgere chi lo ha vissuto fino al punto di rilasciare dichiarazioni come quelle citate.
Ma il punto è proprio questo: ha un senso che il processo penale, che i giudici penali possano essere condizionati dalla pressione dell’opinione pubblica e dall’emotività di una parte del processo, la parte privata, la parte cioè che rappresenta le persone offese?
I tribunali, e soprattutto le Corti di Assise composte anche da giudici popolari, devono poter valutare i fatti liberamente e, se ritengono che un’aggravante vada esclusa, devono poterlo fare senza essere poi tacciati di violare la legge con accuse che vengono lanciate ancor prima di conoscere le motivazioni della sentenza.
Occorre che i mass media evitino finalmente di cavalcare gli umori della piazza al sol fine di cercare e trovare facili consensi. E va anche ripensato, forse, anche il ruolo processuale delle persone offese, che secondo l’architettura del Codice di rito penale dovrebbero partecipare al processo per far valere le pretese patrimoniali per i danni subiti quali vittime dei reati, e non dovrebbero interloquire sull’entità ed equità della pena comminata (nel caso specifico, la pena dell’ergastolo è stata addirittura confermata pur essendo stata esclusa una circostanza aggravante).
Ed è profetica l’intuizione di Ennio Amodio, docente di diritto processuale penale all’Università Statale di Milano, che in un’intervista di pochi anni fa si soffermava sul ruolo della stampa e della parte civile nel processo penale e ricordava, un po’ provocatoriamente, come sia da respingere la “cristallizzazione dei ruoli: l’imputato è fin da subito colpevole, la vittima non può essere messa in discussione… nei momenti culminanti del processo la stampa assume un’impostazione colpevolista e privilegia l’attenzione per le vittime del reato…”.
E ancora: “più i fatti sono eclatanti e suscitano le reazioni da parte delle vittime e le reazioni della stampa, più si incrina la presunzione di innocenza, i magistrati fanno di tutto per resistere, ma sono uomini, uomini di cultura, che vivono nella società e non possono non avvertire i segnali che arrivano da chi ha sofferto ed è stato colpito dal reato… l’equilibrio del processo è alterato dalla presenza delle parti civili.
Come si può risolvere il problema? Una riforma veramente sostanziale… è quella dell’abolizione della parte civile… si tratta di togliere alla vittima il ruolo di parte civile e farla diventare, come in Germania, un accusatore adesivo. Questo spegnerebbe molto degli ardori”.
Sono riflessioni che andrebbero approfondite in un’epoca in cui i processi, prima che in aula, vengono celebrati in televisione e le sentenze, prima che dai giudici, vengono pronunciate dai commentatori e dai telespettatori.