Secondo fonti algerine, riportate dal sito mediorientale Middle East Eye, i due italiani sequestrati a Ghat nel sud-ovest della Libia lo scorso settembre sarebbero nelle mani di un gruppo guidato dall’algerino Abdellah Belakahal, che agirebbe per proprio conto ma sarebbe legato ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) a cui ha minacciato di voler cedere gli ostaggi. Non è possibile confermare la fondatezza di questa notizia ma quanto emerso ci dimostra, ancora una volta, la presenza di numerose infiltrazioni jihadiste in territorio libico, la loro “vitalità” e la loro capacità di sfruttare i porosi confini del failed State per attivare network transnazionali.
Non si tratta certo di una storia nuova. Per comprendere la portata e le caratteristiche del fenomeno jihadista in Libia è necessario fare un passo indietro, fino ai primissimi anni del quarantennio gheddafiano. Il rais, infatti, appena salito al potere si è dovuto preoccupare di un’eventuale opposizione islamica, in primo luogo perché la monarchia che aveva abbattuto era figlia della Senussia, la confraternita islamica della Cirenaica che si era opposta in armi al colonialismo italiano e aveva dato al paese il suo martire più famoso e onorato, Omar al Mukhtar. Nonostante il sistema di controllo imposto da Gheddafi, negli anni novanta è riuscita, comunque, ad organizzarsi un’opposizione islamica. Nel 1996, il Libyan Islamic Fighting Group (Lifg) è arrivato addirittura ad ordire un attentato contro Gheddafi, scatenando l’ira del colonnello che trucidò più di un migliaio di combattenti nel carcere di Abu Selim e, l’anno dopo, lanciò una violenta controffensiva nella regione dello Jebel al Akhdar. Il “leader maximo”, allora, assoldò un migliaio di mercenari serbi reduci dai conflitti in Bosnia e Kosovo che sbaragliarono il Lifg. Nonostante ciò, però, la tradizione jihadista restava radicata in Libia, tanto che l’intelligence americana, qualche anno più tardi, scoprì, dopo un blitz in Iraq, che i libici rappresentavano il contingente più numeroso di combattenti presenti nel paese.
In questo labile contesto le rivolte del 2011 e la conseguenze frammentazione del contesto locale hanno rialimentato il fenomeno, evidentemente solo sopito, favorendo il ricomporsi della galassia jihadista e l’emersione di nuovi attori. Non è un caso se alcuni nomi noti del panorama jihadista libico — come Abdelhakim Belhaj — siano stati indispensabili per la destituzione del rais. Numerosi elementi qaedisti o ex-qaedisti sono stati attivi in Libia fin dalle prime fasi della sollevazione armata nell’est libico. Tra questi, anche Sufian Ben Qumu, molto vicino ad Osama bin Laden in Afghanistan, detenuto per sei anni a Guantanamo e, una volta rientrato in patria, leader della branca di Ansar al-Shari’a a Derna.
Alcuni combattenti sarebbero tornati in Libia dai teatri afghano e iracheno, con il compito di creare legami tra le milizie salafite locali e la leadership di al Qaeda o per creare campi di addestramento nel paese. E così, forti della debolezza delle istituzioni libiche e della loro incapacità di controllo del territorio, i vertici dell’organizzazione hanno pensato bene di trasformare il paese in una sorta di zona franca per al-Qaeda nel Maghreb Islamico. D’altra parte il fragile Stato libico è innegabilmente “funzionale” poiché si trova al centro di numerosi traffici illegali, dal greggio alle armi a quello di esseri umani.
A riprova del rafforzamento di Aqmi in terra libica va rammentata l’individuazione di basi logistiche nell’area della Cirenaica e del Fezzan. Sono numerose le testimonianze di combattenti, per lo più algerini, catturati o uccisi in Siria, provenienti dai campi di addestramento dell’est libico. Nel desertico sud, invece, i servizi segreti algerini avrebbero localizzato basi dei combattenti di Aqmi, attivi in Algeria e nel Sahel, tanto che si sarebbero sovente verificate incursioni delle forze speciali di Bouteflika per distruggerle. Ciò non dovrebbe stupire se si pensa che l’Algeria è ormai una vera pentola a pressione. A minacciarne l’apparente stabilità, oltre alle assai precarie condizioni di salute del presidente, vi sarebbero gruppi di jihadisti attivi al confine con la Libia e con la Tunisia. D’altra parte, Aqmi è figlia della guerra civile algerina degli anni novanta. Le forze di sicurezza del paese non sono riuscite ad annientarla ma solo a spingerla fuori dai confini, da dove potrebbe riorganizzarsi in vista di nuovi attacchi in Algeria ed in altri paesi dell’area, come ad esempio la “fragile” Tunisia che ha fornito il maggior numero di combattenti dell’Isis in Siria.
Questo ci dimostra come, anche oggi che lo stato islamico sembra quasi espunto da Sirte, la persistenza di elementi jihadisti organizzati nel paese, e con reti attive anche in quelli limitrofi, costituisca una reale minaccia non solo per la Libia ma per l’intero quadrante nord africano. Stabilizzare il paese vorrebbe dire quantomeno limitare l’incancrenimento di tale fenomeno. Si tratta, però, di una prospettiva che appare ancora ben lontana. Neppure due giorni fa, un gruppo di milizie islamiste — avverse a quelle di Misurata fedeli al premier Serraj — hanno fatto irruzione nella sede del Consiglio di Stato di Tripoli, aprendo così la strada al redivivo ex primo ministro Khalifa Ghwell che ha “colto la palla al balzo” per tentare di reinsediarsi, con i suoi, nella capitale. Il pericolo per ora sembrerebbe rientrato ma tanto basta per mostrare la debolezza del governo a marchio Onu.