CASO KHASHOGGI/ La Turchia punta alla Siria, i Sauditi creano il caos tra gli alleati Usa

- int. Sherif El Sebaie

Il quadro mediorientale si accende di nuovi momenti di crisi: ora la Turchia ha chiesto l'arresto di due alti ex funzionari dell’intelligence saudita

arabia_saudita_bin_salman_bin_nayef_lapresse_2017 Mohamed Bin Salman (a sin.) con altri reali sauditi (LaPresse)

Due sono i punti che mostrano come il Medio oriente e i paesi arabi stiano vivendo un momento di forte transizione e soprattutto che si tratti di un contesto a geometria variabile che cambia a velocità della luce, ci ha detto l’inviato egiziano in Italia Sherif el Sebaie. Uno è la sfida che la Turchia continua a lanciare a Riad sul caso Khashoggi, l’altra è l’uscita del Qatar dall’Opec.

La Turchia ha chiesto all’Arabia Saudita l’arresto di due alti ex funzionari dell’intelligence coinvolti nel caso Khashoggi. Come mai Istanbul continua a insistere su un caso che tutti ormai considerano chiuso?

Evidentemente i due paesi non hanno ancora risolto le questioni geopolitiche tra di loro. Tale richiesta non riguarda certo il caso Khashoggi in sé, ma altri interessi in discussione.

Quali?

Il teatro mediorientale, Siria in primis, sulla quale la Turchia ha messo gli occhi dall’inizio della guerra, così come l’Arabia. In Siria è ancora del tutto in discussione il futuro.

Per cui per Istanbul questa è un’ottima occasione per mettere in cattiva luce i sauditi? Si può dire che Erdogan li stia sfidando a volto aperto?

Sì assolutamente. E’ una sfida diretta. Benché licenziate, le due persone che si vogliono processare hanno avuto un ruolo molto vicino al principe ereditario.

Permettere di processarli significa dire che Salman è direttamente coinvolto?

Sì, su questo poi continuano voci sempre più insistenti, soprattutto dagli Usa, a rimarcare il suo ruolo nel complotto.

La decisione del Qatar, invece, di lasciare l’Opec, che peso assume in questo quadro? E’ vero che si tratta di una decisione unicamente politica?

Certamente. Il Qatar vuole attirare l’attenzione degli Stati Uniti per spingerli a fare pressioni su Riad affinché metta fine all’embargo. E’un embargo che dura ormai da molto tempo e crea non pochi problemi anche se quelli più grossi, quelli energetici, sono stati risolti. Ma si tratta di un paese che sta lavorando ai mondiali del 2020 e l’embargo marittimo a cui è sottoposto crea problemi per il materiale di costruzione. Chiaramente cercano una via di uscita.

Tra l’altro al G20 si è visto il saluto caloroso tra bin Salman e Putin, sono stati annunciati accordi di collaborazione tra Riad e Mosca.

L’Arabia Saudita vuole dare un segnale: non dipende solo dagli Usa e può tranquillamente rivolgersi a un altro partner strategico. Questo crea problemi a tutti quei paesi arabi che sono rimasti legati alla sfera di influenza americana.

Un quadro complicato dunque. E’ vero che l’uscita del Qatar mette in crisi la stessa Opec?

Da una puto di vista politico e simbolico è una mossa forte, significa che uno dei grandi produttori di petrolio esce dal cartello che per sessant’anni ha stabilito gli alti e i bassi del prezzo del petrolio. Vuol dire che qualcuno dà il segnale di agire senza essere legato alle esigenze economiche degli altri paesi arabi.

Ci sarà un aumento del prezzo del barile?

Non credo ci sarà un effetto immediato sul prezzo del barile, anche perché il Qatar ha detto che questo sganciamento si concentrerà più sul gas naturale che sul petrolio. Il primo produttore assoluto rimane l’Arabia che può superare eventuali squilibri di mercato.

In sostanza ci troviamo davanti a un momento di transizione con alcuni segnali inquietanti?

Il Medio oriente è un contesto a geometria variabile con cambiamenti alla velocità della luce. Negli ultimi tempi ad esempio si è aperto un rapporto cordiale tra Arabia Saudita e  Israele che solo pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. Invece si è concretizzato in nome degli interessi geopolitici condivisi.





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