Queste europee 2024 sono state elezioni creative. Ogni leader di partito ha dovuto inventarsi qualcosa – una situazione, un contesto, un personaggio – in modo da segnare una differenza. Le ricette su Italia ed Europa non potevano bastare e così è stato. L’Alleanza verdi sinistra si è inventata le candidature di Ilaria Salis e Mimmo Lucano. Giorgia Meloni ha inventato la polarizzazione con Schlein, designando Elly ad avversaria privilegiata. La segretaria del Pd non chiedeva di meglio. Operazione riuscita.
Matteo Salvini si è inventato il generale Vannacci: anche in questo caso l’operazione è riuscita perché il successo del militare ha funzionato, portando in dote alla Lega 500mila preferenze.
Antonio Tajani e Forza Italia si sono inventati la matrioska del voto: nella pancia degli azzurri c’era un altro partito, Noi moderati, e poi un altro, la Südtiroler Volkspartei in Alto Adige, e un altro ancora, i Riformatori sardi. E poi hanno stretto accordi al Sud per prendersi Sicilia e Calabria.
L’unico così pieno di sé da ritenere di non doversi impegnare per estrarre un asso dalla manica è stato Giuseppe Conte: l’ex premier grillino non si è inventato nulla e così è sprofondato sotto il 10%.
Tutti parlano del trionfo di Giorgia Meloni, che è stata tra i pochissimi capi di Stato e di governo dei 27 a vincere le europee a differenza – per fare un paio di nomi – del francese Macron e del tedesco Scholz: addentrandoci nei numeri notiamo che Giorgia ha perso 600mila voti rispetto al 2022, mentre la contestatissima Elly ne ha guadagnati 400mila. Senza il valore aggiunto della Meloni, oggi vedremmo FdI probabilmente quasi appaiato al Pd. Lo scrutinio, infatti, ha mostrato un altro elemento silenziato dai più: ovvero che nel Pd, per esempio, non ci sono differenze abissali tra le preferenze raccolte dagli eletti, perché la Schlein ha potuto candidare personalità forti e radicate nei rispettivi territori come Decaro in Puglia o Nardella a Firenze. Invece dietro la Meloni c’è un grande stacco dal resto di FdI. Infine c’è un altro grattacapo per la premier, ampiamente analizzato in queste ore: la stanza dei bottoni. L’amore di von der Leyen va innanzitutto a socialisti e liberali, altri compagni di strada saranno valutati caso per caso, veti reciproci permettendo.
E infine, dietro questo voto, ci sono gli spifferi raccolti nei palazzi romani del potere: sospiri di giubilo nel vedere che i primi exit polls assegnavano a Forza Italia il 12, perfino il 13% dei suffragi. In certe stanze – non solo forziste – lo champagne è stato tolto dal ghiaccio perché per un attimo si è palesata la possibilità di cambiare gli equilibri del Governo con un bel rimpasto per contare di più e ridimensionare gli alleati, in primis la Lega – in coalizione con la Le Pen e ostracizzata da von der Leyen –, e sostituendola con i renzian-calendiani (qualche centrista si trova sempre). Insomma, Tajani era pronto all’operazione. Speranze presto tramontate perché spesso il potere è miope e vede quello che vuol vedere. Invece i numeri, soprattutto quelli delle urne, vanno maneggiati con cura.
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