FONDO NUOVE COMPETENZE/ Le insidie da superare per aiutare lavoratori e imprese

- Giorgio Impellizzieri

Con il Fondo Nuove Competenze si potrebbero aiutare lavoratori e imprese, ma occorre evitare di commettere alcuni errori nell'attuazione

arvedi (LaPresse)

Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanza, ha firmato il decreto in attuazione del Fondo Nuove Competenze, ora in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, disciplinandone le concrete modalità di accesso e di svolgimento.

Istituito dal decreto rilancio dello scorso maggio, il Fondo dispone di 730 milioni (430 per il 2020, 300 milioni per il 2021) a cui possono aggiungersi le ulteriori risorse dei Fondi paritetici interprofessionali e del Fondo per la formazione e l’integrazione al reddito previsto dall’articolo 12 del d.lgs. 276/2003 per i lavoratori in somministrazione (Forma.Temp).

Il Fondo è istituito presso l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro che è individuata come «soggetto responsabile dell’operazione nel suo complesso», essendo responsabile sia di concedere il finanziamento alle aziende che lo chiederanno, previo accordo collettivo siglato a livello aziendale o territoriale, che di controllare i contributi erogati.

In presenza di un accordo convenzionale che preveda la rimodulazione dell’orario di lavoro compensata dall’impiego delle ore in esubero in attività formative, le risorse stanziate serviranno a coprire sia i costi necessari per le attività formative erogate dai soggetti accreditati o dalle stesse aziende (purché dotate di capacità formativa) che per garantire la piena retribuzione dei lavoratori, anche in riferimento alle ore destinate alla formazione anziché alla prestazione lavorativa.

Il Fondo Nuove Competenze rappresenta l’inedito tentativo di intrecciare le politiche passive alle politiche attive, non più a livello individuale quanto piuttosto a livello aziendale. Le politiche del lavoro dell’ultimo decennio in Italia, sulla scorta dei paradigmi internazionali del workfare e del welfare to work, hanno inseguito con scarso successo il modello delle politiche passive condizionate all’attivazione del singolo lavoratore. L’assegno di ricollocazione, la Naspi e, da ultimo, il Reddito di cittadinanza sono state esperienze orientate in tal senso, condizionando la fruizione delle prestazioni di sostegno economico, che fosse nell’ambito di misure di indennità di disoccupazione o in quello di un reddito minimo garantito, all’attivazione del beneficiario. Disponibilità a cercare lavoro, ad accettare un nuovo lavoro, a partecipare a corsi di formazione o di orientamento in cambio del pagamento mensile di una somma di denaro più o meno cospicua.

È noto come la condizionalità non abbia mai veramente funzionato nell’ordinamento italiano e che anche i più virtuosi erogatori di politiche attive non abbiano mai realmente comunicato all’Inps (né viceversa) eventuali inadempimenti del beneficiario, di modo da porre in essere le sanzioni di decurtazione o decadenza dal beneficio.

Con il Fondo Nuove Competenze, il nesso politica attiva-politica passiva non è più posto in capo al singolo beneficiario, che in questo caso è un lavoratore e non già un disoccupato, ma elevato a livello aziendale: se l’azienda, di concerto con le rappresentanze sindacali, formula validi progetti formativi di aumento delle competenze, potrà accedere alle risorse e alla rimodulazione degli orari di lavoro.

Le funzioni di controllo dei contributi erogati, ai sensi dell’articolo 7 del decreto interministeriale, sono affidate all’Anpal. Un controllo che, da un lato, avverrà ex post sulla base di una valutazione di corrispondenza tra il contributo erogato e la quantificazione effettiva del conto del personale in apprendimento. Dall’altro lato, per non attestarsi a un livello meramente contabile, il controllo sarà anche preventivo, da svolgere al momento dell’approvazione dell’istanza di contributo, valutando la qualità dei piani formativi allegati a ciascun accordo collettivo.

Una valutazione che sia strategica e capace di una visione progettuale ampia. Fu creata per questo, d’altronde, l’Anpal: per avere un ruolo di regia nel mercato del lavoro e delle competenze: il Jobs Act conferiva all’Anpal funzioni di gestione, assistenza, consulenza e coordinamento. L’Anpal è in grado di svolgere questo ruolo? Il fallimento dell’assegno di ricollocazione, dei progetti di creazione di un’unica banca dati virtuale di incontro tra domanda e offerta di lavoro, l’insuccesso (almeno del lato occupazionale) del reddito di cittadinanza, sembrano tutti segni che suggeriscono una risposta negativa.

L’inaspettato alleato dell’Anpal potrebbero essere le relazioni industriali. Il successo della misura, infatti, dipenderà molto dall’attenzione che le parti sociali presteranno alla qualità e adeguatezza dell’offerta formativa, sia nella sua erogazione che già dalla sua progettazione. A ciascun accordo collettivo di rimodulazione dell’orario di lavoro, infatti, dovrà essere allegato un progetto formativo che indichi esplicitamente gli obiettivi di apprendimento in termini di competenze da acquisire, i soggetti destinatari, il soggetto erogatore, gli oneri, le modalità di svolgimento del percorso di apprendimento e la durata.

L’attività dell’Anpal può ridursi a un esercizio meramente burocratico, ma in tal caso non si giustificherebbe la scelta di affidare a essa la validazione del finanziamento e all’Inps l’erogazione del denaro. Oppure può rivelarsi decisiva nel presidiare l’iniziativa delle parti sociali ed evitare che il Fondo nuove competenze si risolva in una prosecuzione, a condizioni persino più vantaggiose, della cassa integrazione sinora utilizzata.





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