L’accordo su Gaza, secondo numerose fonti, sarebbe a portata di mano e potrebbe arrivare oggi. Ma molti dettagli restano determinanti

“Il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. E nel Medio Oriente, quei dettagli sono spesso più esplosivi delle bombe”. Con questa frase Gian Micalessin, giornalista de Il Giornale, inviato di lungo corso nei teatri di guerra, sintetizza l’incertezza che circonda i negoziati su Gaza di Sharm el-Sheikh.

A due anni esatti dall’attacco del 7 ottobre 2023, il piano di pace promosso da Donald Trump resta ancora un puzzle incompiuto. Israele continua a colpire in Cisgiordania, Hamas dice di accettare il disarmo ma rifiuta la supervisione occidentale sul dopoguerra, mentre le monarchie arabe tentano di non perdere il controllo della piazza. E Tony Blair, che dovrebbe avere il può importante ruolo di governo nel dopoguerra, è inviso a tutto il Medio oriente.



Eppure, spiega Micalessin, qualcosa si muove: per la prima volta dal 2023, a Sharm siedono allo stesso tavolo gli emissari israeliani, il Qatar, l’Egitto e i rappresentanti di Hamas. “È la prima volta che si tratta davvero” dice il giornalista.

Nella serata di ieri ci sono state reciproche aperture. Secondo i media, Hamas che si è detto disponibile a consegnare gli ostaggi vivi in un’unica soluzione, mentre Trump ha parlato di reale possibilità di pace.



Micalessin, perché Donald Trump ha deciso di svoltare, nonostante Israele, e puntare sul negoziato?

Trump vuole consegnare alla storia un risultato che nessuno ha mai ottenuto: una pace tra Israele e il mondo arabo sotto bandiera americana. È un obiettivo che aveva già promesso nel primo mandato e che oggi, con la sua ricandidatura, diventa simbolico. Ma c’è anche un calcolo politico.

Quale?

Il fallimento in Ucraina lo ha indebolito sul piano internazionale, e il Medio Oriente gli offre una scena più gestibile. Non a caso, le prime bozze di accordo sono nate proprio dai contatti diretti con i Paesi arabi, irritati dal massacro di Gaza e preoccupati per la rabbia delle loro opinioni pubbliche.



Oggi però Israele continua a bombardare Gaza e a espandersi in Cisgiordania. Come si concilia questo con il piano di pace della Casa Bianca?

Non si concilia, e questo è il punto. Israele non si è mai davvero fermato. A Gaza i raid proseguono e in Cisgiordania i coloni allargano le loro posizioni giorno dopo giorno. Gli accordi di pace, per definizione, si fanno con il nemico. Ma fino a oggi non c’erano mai state trattative dirette con Hamas. Quelle di Sharm el-Sheikh sono le prime vere trattative, e questo è già un fatto storico. Il problema è che si negozia nel pieno dei bombardamenti, e in una situazione così nessun rilascio di ostaggi può essere realistico.

Quindi, se capisco bene, il nodo è che si discute di pace mentre la guerra continua?

Esatto. E questo genera scetticismo su entrambi i fronti. Hamas teme di disarmare per poi essere spazzato via, Israele teme che una tregua serva solo alle milizie per riorganizzarsi. In più, nessuno si fida davvero dei garanti. A Sharm siedono americani, qatarioti ed egiziani, ma manca una figura super partes. Tony Blair era stato proposto come amministratore della transizione, ma il suo nome è inviso a molti: in Medio Oriente nessuno ha dimenticato il suo ruolo nella guerra in Iraq.

È sorprendente che Hamas si opponga più a Blair che al disarmo. Come lo spiega?

Il premier di Israele Benjamin Netanyahu (c) mentre parla con il ministro Bezalel Smotrich (Ansa)

È una questione simbolica. Blair rappresenta, nell’immaginario arabo, il ritorno dell’Occidente coloniale. Rievoca il mandato britannico che nel ’48 portò alla nascita di Israele. Hamas, che oggi accetta di consegnare le armi pesanti, ha bisogno di mostrare fermezza su almeno un punto politico. In un negoziato così complesso, anche un gesto simbolico serve a dire: “non stiamo capitolando”.

Uno dei punti più discussi del piano Trump è la ricostruzione di Gaza, la cosiddetta “Gaza Riviera”. È ancora un progetto realistico?

Il nome “Riviera” fa sorridere, ma l’idea di fondo resta: ricostruire Gaza trasformandola in un’area economica speciale gestita e finanziata dai Paesi arabi. Gli Stati Uniti spingono perché siano le monarchie del Golfo a mettere i soldi, con la promessa del diritto al ritorno per i palestinesi che sono fuggiti o saranno evacuati. In pratica, Gaza diventerebbe un grande cantiere arabo, non un territorio controllato da Israele. È una visione ambiziosa, ma fragile: senza un cessate il fuoco vero, nessuna ricostruzione potrà iniziare.

La Cisgiordania, invece, resta fuori da ogni ipotesi di accordo. È il prossimo fronte caldo?

Sì, ed è forse il più pericoloso. Gli insediamenti dei coloni hanno ormai spezzato la continuità del territorio palestinese. Anche se si risolvesse la questione di Gaza, la Cisgiordania rimarrebbe un campo minato politico. Se l’Autorità nazionale palestinese (ANP) continuerà a essere esclusa dal tavolo dei negoziati, la tensione è destinata a riesplodere. È quasi matematico.

Lei ha detto che “il diavolo si nasconde nei dettagli”. Cosa intende, nel caso di questo piano di pace?

Intendo che nessuno, finora, ha spiegato come avverrà concretamente il disarmo. Hamas parla di consegnare le armi pesanti, ma non le leggere. Israele ha accettato l’idea di ritirarsi, ma solo fino alle “zone di sicurezza”, un concetto elastico che cambia di giorno in giorno. E poi c’è la lista dei prigionieri palestinesi: è stata consegnata, ma non si sa se verrà approvata. Finché questi dettagli non saranno chiariti, parlare di pace è prematuro.

Molti osservatori sostengono che Hamas, col senno di poi, rifarebbe tutto da capo. È d’accordo?

Sì, temo di sì. Hamas rivendica ancora il 7 Ottobre come “atto fondativo” del riconoscimento internazionale della Palestina. È una logica che per noi è difficile accettare, ma nella loro narrativa funziona: la violenza come strumento di legittimazione politica. Israele, dal canto suo, ha risposto con una forza che ha travolto anche i civili, e questo ha danneggiato enormemente la sua immagine. In Medio Oriente nessuno è uscito vincitore.

Ultima domanda: dopo i riconoscimenti simbolici di vari Paesi, lo Stato di Palestina è oggi più vicino o più lontano?

Paradossalmente, più lontano. La Convenzione di Montevideo stabilisce che uno Stato deve avere un territorio definito, una popolazione stabile e un governo riconosciuto. La Palestina, oggi, non ha nessuno di questi tre elementi. Gaza è devastata, la Cisgiordania è frammentata, e ci sono due governi rivali. Quello che è stato riconosciuto non è uno Stato, ma un’idea. E un’idea, per diventare realtà, ha bisogno prima di una pace vera.

(Max Ferrario)

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