Il governo Netanyahu non lascia passare gli aiuti per Gaza: l’estrema destra vuole la guerra. L’unica speranza è il piano degli Stati arabi

Israele blocca gli aiuti a Gaza e tutto sembra preparare il ritorno dei combattimenti, dando seguito alle istanze dell’estrema destra del governo Netanyahu. Un’eventualità, spiega Filippo Landi, già corrispondente da Gerusalemme della RAI e inviato del TG1 Esteri, che potrebbe essere scongiurata dalla presentazione, da parte degli Stati arabi, di un piano alternativo a quello di Trump, che vorrebbe trasformare la Striscia in una località turistica deportando i palestinesi altrove.



Un piano, quello arabo, che verrà discusso oggi al Cairo e sul quale influirà anche ciò che sta succedendo in Cisgiordania, dove 40mila persone sono state allontanate dalle loro case e non sanno dove andare.

Israele sospende l’arrivo degli aiuti umanitari a Gaza e anche quel poco di elettricità che arrivava nella Striscia: una pressione che annuncia il ritorno dei combattimenti?



Le notizie arrivate negli ultimi due giorni indicano un cambio di passo drammatico nell’atteggiamento del governo israeliano nei confronti della popolazione di Gaza. Ha già attuato il completo blocco degli aiuti umanitari che entravano da Kerem Shalom e Rafah dopo l’inizio della tregua. Significa che non arriva acqua in bottiglia, né medicinali, né cibo, né le tende fornite dalle grandi organizzazioni umanitarie internazionali private e dalle Nazioni Unite.

In più, si sta realizzando la minaccia della diminuzione di quella quantità minima di energia elettrica e acqua che era stata riattivata e che soddisfa circa il 20% del fabbisogno. La maggioranza dell’energia elettrica veniva fornita da un impianto alimentato da carburante, ora completamente distrutto, mentre l’acqua era garantita da un impianto di desalinizzazione, anch’esso distrutto.



Come si spiega questo ritorno a una strategia ampiamente attuata prima della tregua?

C’è un elemento culturale che mostra la distanza tra il governo israeliano e la popolazione palestinese. Più volte, da parte di ministri israeliani, si è ripetuto in queste ore di smetterla con i pranzi gratis. In realtà, Israele non ha mai dato uno shekel di aiuti, gratis o no, alla gente di Gaza.

La richiesta, invece, ha richiamato alla mente le foto della prima giornata di Ramadan, nelle quali, tra le macerie di Gaza, compare una grande tavola imbandita, soprattutto a uso dei poverissimi. Ma tutti coloro che vivono in Medio Oriente sanno che il pranzo che spezza il digiuno a sera è comunitario: si fa con gli amici, con i parenti, ma anche in strada con i poveri. Ci sono tavole imbandite al Cairo, ad Amman, in tutte le città della regione.

Il pericolo di un ritorno alla guerra è nei fatti, visti, appunto, gli ultimi provvedimenti, o è proprio dichiarato apertamente come possibilità?

Il vice ministro delle Finanze e governatore dei territori palestinesi, Bezalel Smotrich, ha parlato di porte dell’inferno da aprire “il più rapidamente e mortalmente possibile al nemico, fino alla completa vittoria”. Mentre il ministro della Sicurezza interna, Itamar Ben Gvir, sempre minacciando l’inferno a Gaza, ha aggiunto che è il momento di chiudere l’elettricità e l’acqua e tornare alla guerra, senza accontentarsi della metà degli ostaggi, ma tornando all’ultimatum di Trump e quindi chiedendo la liberazione di tutti gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.

La liberazione completa degli ostaggi non è già prevista comunque nell’intesa?

L’accordo sottoscritto anche da Israele prevede, in una prima fase, la consegna (già avvenuta) della metà degli ostaggi. La seconda metà deve essere liberata dopo il ritiro dei soldati israeliani da due punti importanti: il confine con l’Egitto e la zona a nord di Gaza. Questo cambio di passo vuol dire semplicemente che si vogliono indietro tutti gli ostaggi israeliani per poi avere mano libera dentro la Striscia. Lo stesso portavoce del governo ha detto che Israele ha deciso di non ritirarsi.

Israele, in pratica, ha sconfessato l’accordo?

Sì, ha totalmente sconfessato l’accordo, facendosi scudo di una richiesta americana: la consegna immediata di tutti gli ostaggi senza ritiro dei soldati da parte israeliana. In queste settimane, inoltre, siamo arrivati a oltre 100 palestinesi morti, con una media di 6 al giorno, diversi dei quali uccisi da droni israeliani come a Khan Younis e Rafah. La sconfessione dell’accordo, per la prima volta, ha visto i mediatori arabi, quindi Egitto, Giordania e Qatar, uniti nella condanna di Israele.

Perché stavolta la levata di scudi del mondo arabo è unanime?

Se si conclude subito lo scambio dei prigionieri e Israele ha mano libera per rimanere a Gaza, è chiaro che l’obiettivo è duplice: distruggere Hamas e rendere totalmente impossibile la vita dei palestinesi dentro Gaza, favorendo la fuoriuscita verso l’Egitto e la Giordania per la realizzazione di quella che Trump e i suoi consiglieri chiamano la “riviera del Mediterraneo”.

Ma le trattative per la seconda fase della tregua sono iniziate?

Non ci sono trattative in corso, se non un’attesa per la riunione di oggi di alcuni Stati arabi al Cairo, da cui potrebbe uscire una proposta alternativa alla pulizia etnica dell’intera Gaza. Se si raggiunge un risultato concreto, forse si potrebbero riaprire le trattative relative alla fase 2.

Ma di questo piano arabo che cosa si sa?

Quello che si può ipotizzare è che ci sia un’indicazione sul governo palestinese che gestirà Gaza. Hamas ha già detto che è disponibile a starne fuori. Poi devono essere riconosciute le condizioni minime di sopravvivenza: l’ingresso degli aiuti umanitari e l’inizio di una ricostruzione della Striscia con i suoi abitanti all’interno. Detto questo, non si potrà dimenticare ciò che sta accadendo in Cisgiordania.

Il sindaco di Jenin ha dichiarato che non era mai successo niente di simile, neppure ai tempi della Seconda Intifada, all’inizio degli anni 2000. Si parla ormai della chiusura, da parte israeliana, dei campi profughi di Jenin e Tulkarem, con 40mila persone sfollate, cui è stato detto che non potranno tornare almeno per un anno: un modo abbastanza ipocrita per dire che se ne devono andare.

Dove andranno?

In Giordania la preoccupazione per un esodo in quella direzione è sempre più forte. In Cisgiordania, finora, era impensabile che ben 500 coloni potessero salire sulla Spianata delle Moschee, protetti dalla polizia e dall’esercito israeliano, in pieno periodo di Ramadan. È una provocazione inaudita che può portare a scontri violentissimi.

Gli americani hanno pronti 4 miliardi in armi di cui rifornire Israele: vuol dire che assecondano il ritorno alla guerra?

Il segretario di Stato USA, Rubio, ha detto che le prossime forniture di armi a Israele (con la prima tranche di 2 miliardi di dollari) verranno fatte per esigenze che riguardano la sicurezza degli stessi Stati Uniti. Però comincerebbero nel 2026. Vuol dire che l’amministrazione Trump si lascia un margine, sia pure di pochi mesi, per affrontare la situazione in Palestina e a Gaza in particolare.

Si tratta solo di dichiarazioni o ci sono già provvedimenti in quella direzione?

Da parte americana, c’è stata la chiusura dei finanziamenti all’Autorità nazionale palestinese per le sue forze di sicurezza. Significa che Israele e USA ritengono di non avere più bisogno di Abu Mazen e dell’ANP. Il 30% degli aiuti americani serve per coprire le spese di queste forze di sicurezza, che rispondono molto di più ai loro addestratori statunitensi che al capo dell’Autorità palestinese.

(Paolo Rossetti)

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